Le missioni di pace sinora sono state svolte da formazioni multinazionali operanti sotto il cappello Onu (dai c.d. caschi blu si è passati alle formazioni Ue/Nato, oltre a quelle africane e asiatiche nei teatri d’oltremare).
La legittimazione politica discende oggi da una delega del Consiglio di sicurezza al Segretario generale, il quale definisce come reperire le forze e ne designa la struttura di comando.
La missione di pace si avvale del “consenso delle parti” (cdp), quelle belligeranti e ovviamente quelle pacificanti, che è andato trascolorando dalla fine della Guerra Fredda.
Sebbene la Carta delle Nazioni Unite preveda espressamente che essa si occupi di pace e sicurezza, nel corso del tempo la conduzione delle “operazioni di peacekeeping” si è rivelata insostenibile solo con lo Statuto delle NU.
Il cdp è il collante e, allo stesso tempo, l’alibi di decisioni la cui facciata è spesso profondamente differente dalle situazioni oggettive che essa stessa dissimula e i cui intrecci, per quanto nascosti alla pubblica opinione (anzi, proprio per tale ragione) sono il movente vero dell’intervento, di solito determinato dalla volontà di controllare le fonti e le vie di trasporto dell’energia ovvero di ingerirsi negli equilibri di potere delle regioni energeticamente rilevanti.
I rapporti di forza fra paesi che hanno tali interessi da difendere determinano le geometrie delle coalizioni.
Le c.d. “parti” che vanno a fornire i consenso sono costituite da “governi in esilio” creati su misura, “ribelli” dalle inaspettate capacità politiche e soprattutto militari, “consiglieri” speso non meglio identificati, organizzazioni non governative.
A questo insieme che opera sotto la bandiera del paese sul quale si va a inserire la missione di pace internazionale, si affiancano truppe speciali, mercenari, trafficanti di varia natura e sistema massmediatico, in massima parte facente capo a statunitensi, britannici, tedeschi e francesi.
Questo è a grandi linee l’artefatto politico diplomatico che dà vita al cdp, che viene opportunamente propagandato per consentire con il consenso indifferente della pubblica opiniene di intervenire militarmente contro il nemico di turno, ovviamente per portare la pace.
La voce dell’aggredito è oscurata da un “legittimo governo in esilio” (che ovviamente caldeggia l’intervento internazionale) oppure da rappresentanti “dissidenti” del governo , fuggiti “in esilio” in grand hotel di una delle capitali fra quelle interventiste.
Questa tecnica politico diplomatica ebbe le sue prime sperimentazioni dai tempi del VietNam.
Più recentemente ha consentito intromissioni a man salva nei teatri contigui all’Europa quando non al suo interno (tragedia jugoslava).
Al fine di ostentare un cdp più credibile, il gruppo iniziale, vocato alle peace keeping operations (anglo- statunitense, non a caso la locuzione è inglese) è dovuto andare oltre la copertura NU/Nato per inserirvi la Ue. I momenti cruciali in Europa per tale aggiustamento politico sono essenzialmente due.
Col Trattato di Amsterdam del 1997, per la prima volta si affermò esplicitamente la competenza dell’Unione Europea a concepire, realizzare e cndurre missioni di pace.
Il secondo momento importante fu il 24 settembre 2003 a New York, con la Dichiarazione Congiunta tra l’Unione Europea e l’ONU sulla gestione delle crisi.
Il rientro della Francia nell’organizzazione militare della Nato (marzo 2009, per decisione di Sarkozy) va interpretato in questa prospettiva e alla luce dei successivi eventi in nord Africa.
Il contributo dei 25 dell’UE alle missioni di pace condotte o autorizzate dalle Nazioni Unite è di circa circa 40.000 uomini, fornendo il 40% del bilancio finanziario del peacekeeping ONU. Il contributo italiano ha costi oscillanti in salita intorno al miliardo di Euro/anno.
La ragione fondante dell’UE è il superamento degli stati nazionali. Non per caso il manifesto di Ventotene è, a ragione, considerato un “certificato di nascita” della CEE e poi della UE.
Tale autonomia tuttavia si è risolta – per ragioni che potranno essere approfondite in un secondo momento – solo a danno di certi stati, precisamente l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, la Grecia e il Belgio.
Oggi proprio attraverso le strutture politico militari, apparentemente dedicate alle missioni di pace, si porta a livello centrale UE la gestione e l’applicazione della forza (quella interna e quella proiettata), sostanzialmente trasferendole in mani tedesche, francesi e inglesi.
I c.d. EU battlegroups e la Gendarmeria europea sono due esempi nel senso suddetto, da osservare con attenzione, in quanto suscettibili di divenire nuclei di gestione centralizzata della forza fuori da ogni schema democratico e partecipato nella UE.
In tale prospettiva un’assunzione di responsabilità delle regioni europee nelle mdp risulta molto importante e significativa allo scopo di preservare l’originale dichiarato carattere democratico regionale della UE e, inoltre, dare effettiva veste pacifica e pacificante agli interventi europei nei teatri di crisi.
Un’assunzione di responsabilità delle regioni europee sarebbe inoltre utile per arginare l’ingresso di attori extra europei ed extra mediterranei, tesi a influenzare a proprio vantaggio i focolai di crisi attizzatisi sui più rilevanti giacimenti energetici, scoperti recentemente nel Mediterraneo.
E’ giunto il momento per le regioni europee, segnatamente quelle meridionali, di verificare la genuinità degli entusiasmi regionali sinora manifestati nella UE e, allo stesso tempo, difendere con incisività i peculiari interessi economici, gli stessi interessi che gli stati madre hanno spesso sacrificato a vantaggio di gruppi extra e trans nazionali difficili da individuare con chiarezza non di meno incisivi in quanto ad effetti nefasti sulla crisi economica in corso.
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