Si Sa Ma Non Si Dice – di Luciano Prando

Si sa ma non si dice. La ricchezza d’un paese non si misura col PIL, una sommatoria demenziale di costi e ricavi, come affermò Robert Kennedy in un suo famoso discorso:”anche i costi per gli incidenti stradali aumentano il PIL, ma non vogliamo più incidenti stradali per aumentare il PIL“. Terremoti, tsunami, immigrazione spesa pubblica inutili, inondazioni, frane, slavine, eccetera, bocciodromi, stadi, campi di padel, musei della grappa, templi del benessere, museo del giocattolo, campi da softball, turismo interno, eccetera….ogni disgrazia, ogni sperpero aumenta il PIL.

Il turismo interno, festosamente celebrato dai media italiani come un pilastro dell’economia nazionale, costituisce invece un costo poiché consuma energia e materie prime importate. Se s’importasse anche il personale, creerebbe ulteriori costi sociali.
Non deve e non si può proibire il turismo, fra i consumi edonistici; non si dovrebbero tuttavia spendere quattrini pubblici per sostenerlo, lasciandolo, invece, al libero mercato poiché non favorisce l’aumento della ricchezza nazionale. Le regioni dovrebbero smettere di usare soldi pubblici per farsi concorrenza pubblicitaria, piuttosto dovrebbero consorziarsi per attirare il turismo estero.
Il PIL calcolato in dollari introduce un ulteriore distorsione: il caffè gustato a Lugano vale per il PIL svizzero 2 dollari, sorbito a San Paolo pesa per il PIL brasiliano solo 25 centesimi di dollaro.
Si sa ma non si dice. La ricchezza d’un paese si misura con le materie prime, l’agricoltura e le merci fabbricate, calcolate al prezzo di mercato. La ricchezza determina anche la capacità di attrarre capitali liquidi e investimenti produttivi.
La ricchezza si misura quindi coi segmenti primario e secondario dell’economia e coi capitali disponibili. Un governo che voglia far davvero crescere la ricchezza, nell’interesse nazionale, dovrebbe concentrare gli incentivi non sul terziario, non sulla sovrastruttura, bensì sulla struttura dell’economia. Più forte è la struttura più c’è ricchezza da spendere nella sovrastruttura.
Si sa ma non si dice. L’inflazione non si fronteggia aumentando le retribuzioni e il tasso d’interesse, aumentando così i costi di produzione e quindi i prezzi, bensì riducendo i costi ed incentivando la produttività, riducendo quindi i prezzi e aumentando il potere d’acquisto dei salari senza incrementarli.
Si sa ma non si dice. Il cuneo fiscale sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici e sulle pensioni è una finzione contabile con scritture in entrata ed uscita che mutuamente s’azzerano. Il bilancio statale sarebbe più chiaro se venissero eliminate.
Il cuneo fiscale sulle retribuzioni dei dipendenti privati simula una partecipazione ai costi dello Stato (le tasse) e un versamento obbligatorio a copertura di pensioni proporzionali ai redditi personali. In realtà è un costo di produzione che, influenzando direttamente i prezzi, indebolisce la competitività delle merci fabbricate nel paese. In Italia il cuneo fiscale è tra i cinque più alti al mondo, insieme a Germania, Francia, Paesi Bassi (Olanda) e Belgio: 100 euro netti in tasca al dipendente costano il doppio all’azienda. In tutti gli altri paesi il cuneo fiscale varia da quasi zero ad un massimo del 50%.
Si sa ma non si dice. Germania e Francia usano le entrate del cuneo per finanziare e promuovere globalmente le proprie multinazionali e le manifatture locali. Sono veri e propri aiuti di stato mascherati.
Paesi Bassi e Belgio finanziano così i servizi alle imprese che vi stabiliscano la sede fiscale, detassando i loro profitti, creando sedi di comodo per l’interfatturazione, europeizzando merci in realtà extra-europee, compensando l’Iva sulle importazioni extra-europee. A questo aggiungono l’uso del contante senza limitazione alcuna.
È un paradiso fiscale nel cuore dell’Europa: funzionale all’industria tedesca: Germania, Paesi Bassi e Belgio, che hanno il più alto saldo attivo import-export al mondo.
Italia adopera il cuneo fiscale per le spese correnti dello Stato, indebolendo la competitività dei propri prodotti, favorendo promuovendo la delocalizzazione e le importazioni, disincentivando quindi gli investimenti, comprimendo così salari ed occupazione.
L’Italia dovrebbe annullare il cuneo fiscale nei settori manifatturiero e agricolo, iniziando con l’azzeramento dell’Irpef. Non lo farà mai poiché, per recuperare le mancate entrate, sarebbe necessario aumentare l’Iva su alcuni consumi in larga maggioranza importati quali elettronica, telefoni, tv, elettrodomestici, auto, ma, soprattutto, sul lusso e sull’edonismo: strepiti dalle varie associazioni, minacce di licenziamenti, ristoratori, partite Iva, ricorsi alla Corte Costituzionale.
L’Iva fu inventata e applicata in Francia fin dal 1954, grazie a Maurice Fauré, alto funzionario del Ministero delle Finanze francesi, e adottata dall’UE solo a partire dal 1967.
Negli anni ’50 l’industria francese investiva molto ma era penalizzata dalla tassazione su ogni acquisto: l’Iva permise di detassare gli investimenti aiutando la Francia a diventare il paese europeo più industrialmente avanzato del momento. L’Iva è oggi un sistema obsoleto, farraginoso, controproducente, è un incentivo all’evasione.
Si sa ma non si dice. Gli Usa non hanno questo sistema di compensazione tra imposte pagate sugli acquisti e incassate sulle vendite. Hanno la “sale tax”, tassa sulla vendita, applicata alla merce acquistata dal consumatore finale. Negli Usa non esiste tassazione sulla fatturazione tra imprese
Anche nell’import-export europeo la fatturazione tra imprese è esente Iva, applicata solo al venduto interno a ciascuno stato: ciò permette giochi di interfatturazione, vendite parziali in nero per contanti ed evasioni legali-illegali a gogò: crocevia di codeste attività sono, ovviamente, i Paesi Bassi, non solo per le multinazionali ma per chiunque sia abbastanza strutturato da potervi aprire una sede import-export, riducibile a un computer che emetta fatture e riceva fatture piazzato all’indirizzo d’un qualsiasi avvocato.
Si sa ma non si dice. I Paesi Bassi hanno solo 17 milioni di abitanti ma sono secondi in Europa per interscambio commerciale subito dopo la Germania, principalmente con scambi di fatture piuttosto che merci.
Pervicacemente, in Italia, il sistema Iva viene accettato, con finti mugugni, dalle imprese poiché con trucchi legali e illegali permette di evadere tra 10 e 20 miliardi di solo Iva, cui vanno aggiunte le connesse entrate fiscali nascoste sul nero.
Nonostante tutto, l’Italia non passerà mai al sistema Usa caricando una tassa solo sul venduto finale al consumatore, nonostante i vantaggi di eliminare l’interesse all’evasione e ridurre le imprese da controllare da 5 milioni a un milione.
Si sa ma non si dice. L’Europa non è uno Stato, non ha confini né polizia di confine. Per incassare i dazi sulle merci extra-europee delega e remunera le dogane dei paesi d’ingresso, né incassa l’iva che rimane a vantaggio di codesti paesi. L’UE non è membro dell’ONU e i suoi Stati sono in furiosa competizione tra di loro.
L’UE è sempre di più un’organizzazione lobbistica in mano agli establishment tedesco e olandese, perfettamente integrati nei compiti, con la Germania a fabbricare mentre Olanda e il Belgio a commerciare senza regole.
In questi stati l’establishment economico controlla politica e burocrazia, imponendo leggi, regolamenti, decisioni. Politica e burocrazia eseguono perché l’establishment occupa i posti chiave governativi. La nomenklatura fa capo alle solite famiglie: i Van den Bergh, i Bols, ex-managers Siemens, Bayer, Philips, eccetera.
Costoro badano a difendere ed aumentare le proprie ricchezze, il proprio potere, ma nel contempo difendono e aumentano le ricchezze del proprio paese.
Si sa ma non si dice. USA, Francia, UK e Spagna funzionano analogamente, sia pure con differenti modalità.
Nel mondo occidentale basta un “pizzino” confindustriale e il governo, di qualsiasi colore sia, obbedisce. La Confindustria italiana, rissosa, disunita e politicizzata nessuno l’ascolta almeno dal 1992.
L’Italia si è unita grazie a una guerra predatoria di una piccola monarchia, quella piemontese, tele-guidata dai governi anglo-francese e dalla dominante  massoneria , per scalzare dall’area mediterranea le potenze cattoliche rappresentate dall’Impero Asburgico, lo Stato della Chiesa e le Due Sicilie, senza formare un vero establishment economico.
Il regime fascista, per sostenere l’industrializzazione del paese, intervenne con capitali statali attraverso l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, il famoso IRI che durò finno agli anni ’90.
Nel dopo-guerra la nascente industria del nord non si assunse responsabilità di governo, ma bevve capitali alla fonte dello Stato, da cui deriva la metà del Pil e dell’occupazione: una confusa conglomerata fuori controllo, bancomat e bacino clientelare dei partiti, che spazia dalle tele-comunicazioni, ai computer, dall’energia ai panettoni. Svenduta infine agli stranieri in una scriteriata liquidazione per entrare nell’euro e per “sottomissione” agli interessi stranieri.
Questa potente macchina, riorganizzata ed efficientata nella produzione, nel marketing e nella finanza, avrebbe potuto essere una grande forza per il Made in Italy a livello globale, i nostri “amici” inglesi, francesi e tedeschi lo avevano ben capito: dopo averci tolto la sovranità monetaria nell’80, nel ’92 ci “fecero” svendere tutto in una liquidazione da bancarella.  
Purtroppo il peso economico del pubblico originò, invece, la partitocrazia, al posto di un assente establishment capace di condizionare la politica: in Italia abbiamo dei capitalisti senza capitali concussi dalla politica.
L’assurdo è che, lamentandosi del mal funzionamento della burocrazia, questi poteri “deboli” non riescono neanche ad accordarsi per scrivere nuove regole ed imporle.
Si sa ma non si dice. In passato esisteva la “busta paga” coi contanti; oggi tutto passa per via bancaria: al mondo dell’impresa basterebbe rifiutarsi di fare l’esattore per lo stato di Iva, Irpef e contributi pensionistici che tanto pesa come adempimenti burocratici, versando in banca il lordo totale dovuto al dipendente, lasciando alla banca il compito automatico di attribuire allo stato quanto dovuto. Non lo si fa poiché trattenere per mesi capitali dovuti allo stato fa comodo alle imprese e permette facili evasioni.
Il risultato è una guerra tra i politici senza regole, senza rispetto, cruenta, coi morti, giudiziaria, chiamando in aiuto “truppe” straniere, per accaparrarsi vantaggi economici estranei agli interessi del paese.
Nonostante tutto l’industria e l’agricoltura italiane, nonostante siano penalizzate, riescono a trovare nicchie di espansione nel mercato globale, grazie alla capacità di imprenditori e manager. Si dice quindi “piccolo è bello”, ma purtroppo “grande è necessario”.
Occorrerebbe un nuovo IRI, un Fondo Sovrano garantito dai beni immobili statali, capace di finanziarsi sui mercati, senza gravare sul debito pubblico, allo scopo di investite nella modernizzazione e promozione del Made in Italy, di gestire i settori strategici: qualcosa di molto simile al progetto che Savona propose alla Lega e che la Lega ignorò. Questo nuovo IRI diverrebbe il motore indipendente dell’intera economia, lasciando al governo la gestione dei servizi sociali, della giustizia e della sicurezza. Ma né le imprese, né la politica vorranno rinunciare alle loro reti di interessi reciproci.
Nello strampalato paese, denominato Italia, dal debito pubblico record, oltre i 2.000 miliardi, esiste una Treasure Island record posseduta dalle famiglie italiane: oltre 5.000 miliardi investiti in strumenti finanziari, cioè ricchezza immobilizzata o a ingrassare altre economie, in minima parte utilizzata per il debito pubblico o azioni del Made in Italy.
Dei 5.000 miliardi e più di risparmi delle famiglie italiane solo circa il 3% è investito in titoli di Stato, dei quali un quarto sono detenuti dalla Banca d’Italia, un terzo da operatori finanziari non residenti in Italia, i restanti da operatori finanziari residenti in Italia.
Altro che lo striminzito localistico in mille rivoli del PNRR, bontà europea permettendo: lì, in quei oltre 5.000 miliardi potrebbe pescare a piene mani il nuovo IRI.
Su questo rutilante tesoro si può sfuggire alle tasse che, comunque, ammontano solo al 26% di una eventuale plus-valenza in caso di vendita, ma da cui si deducono eventuali perdite subite in altre operazioni finanziarie.
Si sostiene che con un regime fiscale più severo questi capitali fuggirebbero all’estero: bugia poiché sono già all’estero in fondi di investimento internazionali, monete, azioni, titoli di stato stranieri, banche estere, oro eccetera.
Quando si compra pane, pasta, olio, burro, gas, elettricità, acqua eccetera si paga un’imposta, l’Iva, quando si comprano beni finanziari non si paga nulla, in attesa d’un ipotetico guadagno su di una vendita futura, perché? Sarebbe quindi adeguato tassare acquisto e possesso dei beni finanziari, per poi compensare alla vendita.
Da codesta tassazione vanno esclusi, anzi premiati, i buoni del tesoro (che già godono imposizioni ridotte), certe tipologie di acquisto per le azioni del Made in Italy, le acquisizioni di imprese straniere e, soprattutto, gli strumenti di finanziamento del nuovo IRI.
Si sa ma non si dice. Non lo si farà mai perché renderebbe profittevole investire Italia, che invece la si vuole schiava del mercato globale.

Informazioni su Piero Laporta

Dal 1994, osservate le ambiguità del giornalismo italiano (nel frattempo degenerate) Piero Laporta s’è immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come d'altronde sarebbe stato naturale considerando il lavoro svolto a quel tempo, (Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa). Ha collaborato con numerosi giornali e riviste, italiani e non (Libero, Il Tempo, Il Giornale, Limes, World Security Network, ItaliaOggi, Corriere delle Comunicazioni, Arbiter, Il Mondo e La Verità). Ha scritto “in Salita, vita di un imprenditore meridionale” ed è coautore di “Mass Media e Fango” con Vincenzo Mastronardi, ed. Leonardo 2015. (leggi qui: goo.gl/CBNYKg). Il libro "Raffiche di Bugie a Via Fani, Stato e BR Sparano su Moro" ed. Amazon 2023 https://shorturl.at/ciK07 è l'inchiesta più approfondita e documentata sinora pubblicata sui fatti del 16 Marzo 1978. Oggi, definitivamente disgustato della codardia e della faziosità disinformante di tv e carta stampata, ha deciso di collaborare solo con Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti. D'altronde il suo più spiccato interesse era e resta la comunicazione sul web, cioè il presente e il futuro della libertà di espressione. Ha fondato il sito https://pierolaporta.it per il blog OltreLaNotizia. Lingue conosciute: dialetto di Latiano (BR) quasi dimenticato,, scarsa conoscenza del dialetto di Putignano (BA), buona conoscenza del palermitano, ottima conoscenza del vernacolo di San Giovanni Rotondo, inglese e un po' di italiano. È cattolico; non apprezza Bergoglio e neppure quanti lo odiano, sposatissimo, ha due figli.
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