Stefano Cucchi, morto mentre era nelle mani dello Stato. La chiarezza è una via obbligata, superfluo spiegare perché.
Sgomberiamo il campo da un paio di nuvole alquanto infette.
Le sentenze si rispettano a prescindere che facciano comodo o meno. Semmai ci si appella, dopo un esame di coscienza coi proprio avvocati per controllare se tutto quanto sia stato fatto a puntino, per esempio verificando se sia stata privilegiata la concretezza piuttosto che lo spettacolo. Neppure ci si può attendere una giustizia rapida finché il paese è quello che è, con una macchina della Giustizia perfettamente in linea coi cittadini e le rimanenti istituzioni. Pessimi? Ma non è colpa della Giustizia, quanto meno non tutta la responsabilità è sua, anzi. Neppure di Stefano Cucchi, si dirà, con molta ragione.
Diradiamo la seconda nuvola maleodorante, almeno tentiamo di porre le premesse perché accada. Le foto del povero Stefano Cucchi cadavere, agitate davanti alle telecamere, ricordano i cadaveri agitati per le vie di Gaza. Qui siamo in Europa, nel 2014, in un paese civile dove non si dovrebbe cercare di catturare il favore della pubblica opinione, agitando delle foto. Quando mai la foto di un cadavere sul tavolo del perito settore ha trasmesso un messaggio di felicità e buona salute? Tanto meno quello di un giovane la cui vita non è stata granché tranquilla. L’ostentazione di quelle foto rende lecito il sospetto che manchino argomenti più solidi, quand’anche il sospetto fosse infondato.
Ciò detto, Stefano Cucchi è morto nelle mani dello Stato, i cui organi non possono, non devono e – speriamo – non vogliono spargere nebbia invece di fare chiarezza.
Fra gli elementi da chiarire sulla morte di Stefano Cucchi, la nostra attenzione è attratta dai seguenti. Li elenchiamo non perché convinti non ve ne possano essere altri, ma piuttosto per ricordare, se fosse necessario che è indispensabile il rigore nelle procedure, in ogni momento di tali vicende, non solo per Stefano Cucchi dunque.
Dalla prima ora il SAPPE – Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria – chiamò in causa i Carabinieri. Oggi quella chiamata di correo rinfocola sui giornali e, per quanto se ne sa, negli atti giudiziari.
I Carabinieri, come tutte le forze di polizia, hanno procedure standardizzate da seguire pedissequamente da quando un cittadino viene fermato e arrestato, fino a quando è consegnato al carcere. Fra tali procedure vi sono le fotografie, i rilievi medici, le descrizioni obiettive dello stato del soggetto.
Delle due l’una. O le accuse ai Carabinieri sono fondate oppure sono calunniose. In questi frangenti si risponde o presentando delle giustificazioni oppure denunciando per calunnia. La terza via, comunemente conosciuta come “tarallucci e vino”, è comoda ma non fa l’interesse dei cittadini, né quello dello Stato, tanto meno quello degli agenti di polizia malcapitati nella vicenda e, come si può supporre, neppure quello di Stefano Cucchi. Vogliamo dunque sapere chi mente: la Polizia penitenziaria o i Carabinieri? Vogliamo dunque sapere perché i dirigenti dell’una e degli altri lasciano che a sbrigarsela siano i loro sottoposti nelle diatribe da gazzetta, piuttosto che tirare fuori le carte e fare chiarezza subito e senza equivoci. Fuori le carte, dunque.
Un altro aspetto da chiarire concerne un presunto testimone, ospite della galera in cui fu portato Stefano Cucchi. Questo testimone avrebbe sentito il povero Stefano Cucchi invocare aiuto. Questo testimone non è stato ammesso a testimoniare. Speriamo che la sentenza motivi bene e senza ombre le ragioni di tale esclusione. La parte civile, d’altronde avrebbe fatto meglio, piuttosto che agitare macabre e irrilevanti fotografie a interrogare quel misterioso testimone, come il codice di procedura penale consente. Questo lo può fare anche in vista del processo di appello. Lo farà?
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