Nel corso di una tavola rotonda su: “Dio, Patria, Famiglia: esistono ancora?” il generale Vincenzo Camporini affermò: «L’unica potenziale soluzione dei nostri problemi, verso quella Federazione Europea che faccia giustizia delle piccole patrie, che nel cosiddetto ‘secolo breve’, hanno prodotto le più feroci e sistematiche stragi della storia, in nome di una Patria comune più ampia, portavoce di una cultura comune, concretizzazione di quelle comuni radici che in nome di un preteso, miope laicismo, non sono state solennemente evocate nei trattati».
Non mi pare realistico. La cultura non è più sufficiente ad accomunare gli europei, a fronte dei rapporti di forza, politici ed economici, stratificatisi nei decenni scorsi. L’Italia è dominata non cooptata.
Má Vlast di Vincenzo Camporini Quando mi hanno proposto di parlare in questa sede di ‘patria’, la mia reazione iniziale è stata: “non ci penso proprio”. E’ vero che in Aeronautica i piloti sono considerati dei tuttofare, che possono passare da manovali della cloche a giuslavoristi in grado di progettare e gestire il rapporto di lavoro di tutto il personale dal più alto dirigente al più modesto operatore, a logisti di strutture complesse in condizioni di normalità come di assoluta emergenza, a esperti di diritto contrattuale internazionale, a gestori del sistema informativo, dalle sue forme più tradizionali dell’humint a quelle più tecnologicamente sofisticate, fino a giungere alla cyberwarfare. Ma cimentarmi in filosofia, affrontare fondamentali temi di etica, in un dialogo poi con chi di questi temi è maestro indiscusso, come tutti coloro che stasera sono qui a parlarvi, be’, mi sembrava davvero troppo. Dovrete quindi accontentarvi di considerazioni molto meno approfondite di quelle degli altri panelist, da ‘uomo della strada’, da chi ha compiuto un certo percorso, anche perché guidato e sorretto da una serie di convinzioni. Ricordo ancora il mio stupore quando a 16 anni mi imbattei in Gioventù Studentesca, la prima creazione di Don Giussani e mi venne presentato il valore della ‘tradizione’. Correva il 1962, il ’68 era ancora di là da venire, ma io già volevo buttare tutto a mare, tutto il passato che ci aveva ‘regalato’ l’imperialismo, il fascismo, il comunismo bolscevico, un paio di conflitti mondiali, la shoah, la guerra fredda e all’improvviso trovai qualcuno che mi faceva riflettere sulla mia struttura interiore, sia nella dimensione etica che in quella culturale – che non sono poi cose così diverse e separate – e sul fatto che, anche ammessa la teoria della ‘tabula rasa’, su questa tabula nei millenni passati qualcuno aveva scritto la mia storia a caratteri indelebili. Eccoci al punto: chi e che cosa erano questo ‘qualcuno’? Credo davvero che dare risposta a questa domanda significhi analizzare e capire al di fuori di qualsiasi retorica i concetti stessi di patria e famiglia e dare fondamento alla nostra umana visione, certo imperfetta, della trascendenza, visione che può infine giungere all’idea del Dio personale, essenza della visione giudaico-cristiana. Il libro di Marcello Veneziani indubbiamente lo spiega molto bene, con un’analisi raffinata dalla genesi all’attuale tramonto, per lo meno in questo limitato spicchio di mondo e non mi proverò certamente, dopo che lui stesso ci ha presentato il suo pensiero, a fare una sintesi di quello che la lettura – singolarmente agevole, pur trattandosi di un testo assai profondo – ha lasciato in me. Proverò invece a dirvi che cosa significa per me il concetto di patria, e perché sono convinto della sua fondamentale importanza per indirizzare il mio agire e come ha influenzato il mio pensiero in relazione agli obiettivi che ritengo debbano essere perseguiti, da me individualmente, così come dalla comunità di cui facciamo parte. Partirò con il domandarmi che cosa fa di me l’essere unico e irripetibile che so istintivamente di essere. Io credo che l’analogia che in qualche modo può dare risposta a questo quesito sia quella di uno spartito, progressivamente creato lungo i sentieri della storia, spartito che indubbiamente condivido con molti altri esseri che ho accanto, più o meno vicini, ma che io interpreto in modo del tutto personale, contribuendo peraltro ad aggiungere qualche rigo, che arricchirà lo spartito stesso, in modo da potere, un domani, essere interpretato da altri. Lo spartito non è uguale per tutti, ma coloro che ne interpretano uno simile al mio sono uniti a me dalla partecipazione ad una grande orchestra, non sempre perfettamente intonata, anzi, qualche volta oggettivamente dissonante, ma in qualche modo idonea a generare una grande sinfonia. Ed è una sinfonia che deve in qualche modo mescolarsi ad altre, intonate da altre orchestre, che dispongono di spartiti simili tra di loro, ma diversi dal nostro. Ecco la mia patria, che si muove nella storia, che ha limiti, ma sono limiti che difficilmente possono essere identificati da confini, i cui elementi sono tutti importanti, ma nessuno dei quali è sufficiente, anche se talvolta appare necessario. Si prenda la lingua: è certamente molto importante, ma non è assolutamente necessaria e talvolta non è neppure sufficiente. Esistono paesi che dimostrano una solida coesione interna, ma in cui si parlano lingue diverse, così come ci sono larghe fette di umanità che parlano la stessa lingua, ma in cui c’è un palese rifiuto a considerarsi parte di una stessa comunità: si pensi ai popoli accomunati dalla lingua araba, fieramente divisi tra di loro fino a giungere ad aperta e violenta ostilità. Pure la lingua costituisce una ricchezza ad un tempo individuale e collettiva, perché tramite la lingua si possono condividere concetti, idee, programmi d’azione, che sono a volte unici, tipici di un gruppo specifico: chi parla altre lingue oltre la propria sa bene che esistono parole non traducibili, se non con circonlocuzioni, parole, quindi, la cui padronanza costituisce un unicum ed imparare una lingua diversa non è solo acquisire un ulteriore strumento di lavoro, non è solo un fatto utilitaristico, molto di più, costituisce un arricchimento personale perché ci si impadronisce di nuovi concetti, che consentono una visione più ampia e più puntuale della realtà che ci circonda. Me ne accorsi bene quando tradussi dall’inglese per Silvana un libro su una vicenda della seconda guerra mondiale: a volte ho dovuto veramente inventarmi delle espressioni per cercare di rendere in italiano il senso di quanto scritto dall’autore. Dunque, l’analisi dei singoli elementi non mi aiuta a definire una comune appartenenza e allora devo ricorre a un processo di sintesi. A chi mi sento affine, con chi posso sperare di trovare un’intesa personale che mi faccia intendere l’altro non come un estraneo, ma come un compagno di viaggio, da cui posso attendermi comprensione e solidarietà e a cui posso offrire comprensione e solidarietà? Storicamente questo poteva accadere solo con coloro con cui si poteva entrare in contatto fisicamente: da qui il valore della tribù, del clan, entità che concretizzarono le prime rudimentali forme di patriottismo. Ma appena si iniziarono lo sviluppo e la diffusione dei modi di comunicare, la limitazione geografica si incrinò, con risultati ambivalenti, da un lato si crearono ponti fra comunità prima separate, dall’altro nacque e si rafforzò un’identità di gruppo che poteva alimentare competizione e rivalità. I nuclei tribali si ampliarono, inglobando nuclei più deboli contermini, certo in modo non indolore, ma con una crescita culturale dovuta all’intreccio tra le diverse realtà sociali, fino alla creazione di veri e propri imperi, dotati di una specifica personalità. Non si trattava certo di un processo lineare: le dinamiche connesse con nascita crescita e decadenza si sovrapponevano a queste tendenze, ma il concetto di patria trovò un suo innegabile sviluppo.Quando un cittadino di Antiochia, o di Londinium poteva dire con orgoglio ‘civis romanus sum’ non esprimeva forse un concetto di patria che si allargava bene al di là della famiglia, del villaggio, della tribù? Già allora patria prescindeva da concetti di natura etnica, di abitudini alimentari, di costumi sociali di natura sessuale, di identità religiosa: patria era un’ideale di unità che permetteva di distinguersi orgogliosamente dagli ‘altri’, quelli che con un’espressione greca venivano definiti ‘barbari’. Ai fini di ciò che voglio trasmettervi, poco importa che quella realtà sia poi crollata, travolta da forze esterne e dalle proprie debolezze interne, anzi, proprio da quelle vicende si possono trovare utili insegnamenti per evitare di ricadere negli stessi errori e di dovere affrontare quello che Roberto Vacca definì, con una fortunata espressione, il ‘Medioevo prossimo venturo’, perché indubbiamente il rischio c’è ed è concreto. Dunque, che cos’è oggi la Patria per me? Per me che parlo inglese e francese, per me che da ragazzino leggevo Verne, Stevenson, Collodi, ascoltavo le canzoni napoletane e il primo rock-and-roll, che studiavo i classici latini al liceo,mettendo in sottofondo la musica di Vivaldi, Brahms, Stravinsky, leggevo avidamente Stendhal, Pirandello, Dostoevskij. E non dite che ero o sono un po’ strano, perché conoscevo e conosco miriadi di giovani che si possono riconoscere in questo ritratto, giovani e meno giovani per i quali c’è un ampio nucleo di cultura interiore profondamente radicata, grazie al quale poco importa che la carta di identità riporti come luogo di nascita Gubbio o Tolosa, Burgos o San Pietroburgo, giovani e meno giovani che non hanno paura di incontrarsi, anzi, che si vogliono incontrare, che hanno avuto l’esperienza dell’Erasmus, o che vorrebbero averla fatta, o che vorrebbero farla. E’ vero, la drammatica crisi economica che stiamo attraversando può in qualche modo rendere più sfocati i contorni di questa patria allargata, che non ha una lingua comune (se si considera l’Eurozona si può addirittura dire che la lingua comune non è quella parlata in alcuno dei paesi membri!), dove a volte le diseguaglianze sono stridenti, dove vecchi pregiudizi e stereotipi, che ci eravamo illusi di avere definitivamente esorcizzato, tornano alla luce. Sono tempi, questi,in cui piccoli uomini smarriti, che occupano quasi per caso posizioni di vertice, non hanno più per modelli gli Schuman, gli Adenauer, i De Gasperi e, per essere più vicini a noi, i Délors, ma cercano di guadagnarsi populisticamente il voto di un elettorato sfiduciato, invece di assumere con determinazione il ruolo di guida, di condottieri verso l’unica potenziale soluzione dei nostri problemi, verso quella Federazione Europea che faccia giustizia delle piccole patrie, che nel cosiddetto ‘secolo breve’, hanno prodotto le più feroci e sistematiche stragi della storia, in nome di una Patria comune più ampia, portavoce di una cultura comune, concretizzazione di quelle comuni radici che in nome di un preteso, miope laicismo, non sono state solennemente evocate nei trattati. E non sono solo motivazioni ideali e storiche che mi ispirano queste convinzioni: è la dura concretezza della globalizzazione, anche solo per meri motivi di interesse spicciolo, che dovrebbe indurci a riconoscere che solo in questa Patria più ampia c’è la speranza di un futuro per le generazioni che verranno. L’ho già detto in altre circostanze: esiste una straordinaria analogia tra la situazione nella penisola italiana nel 1845 e quella nell’Europa di oggi. Allora nei nostri staterelli, compatibilmente con i tempi, ci si crogiolava in un relativo benessere, inconsapevoli che i destini di Ferrara, di Roma, di Napoli venivano decisi altrove, venivano decisi a Vienna, a Parigi, a Londra. Oggi gli staterelli europei – sì, staterelli, anche la grande Germania è un nano nel nuovo quadro – cercano di difendere disperatamente il proprio benessere, il proprio peculiare modello sociale, denso di solidarismo (ricordiamoci sempre le ‘radici’!), senza considerare che i destini di Parigi, di Roma, di Berlino vengono decisi altrove, a Washington, a Pechino, a Delhi, con scarsa o nulla considerazione per i comuni interessi europei. Ed in questa ottica leggo gli attacchi all’Euro, con le drammatiche ripercussione che abbiamo dovuto constatare e constatiamo quotidianamente. Un’Europa divisa non conta più nulla, non riesce ad influire minimamente sulle situazioni di crisi che hanno diretti riflessi sulla nostra stabilità: Siria, i cosiddetti ‘conflitti congelati’ nel Caucaso, le illusorie primavere arabe, solo per citarne alcune. Solo con un consapevole riconoscimento di essere componenti di una patria comune, con interessi condivisi, che richiedono strumenti integrati, tra cui in primis, un unico sistema di relazioni esterne e uno strumento militare integrato, che facciano giustizia di particolarismi sepolti dalla storia, solo in questo modo potremo tutti noi, francesi, spagnoli, lussemburghesi, bavaresi, italiani riappropriarci del nostro destino, in nome di una patria comune in grado di proteggerci e per la quale dobbiamo essere pronti a sacrificarci, così come eravamo pronti a sacrificarci negli anni ’70 per difendere il nostro modello di vita dalla minaccia totalitarista. Tavola rotonda “Dio, Patria, Famiglia: esistono ancora?” Roma, 8 Aprile 2013 |
La cultura non basta di Piero Laporta Abbiamo una Patria? Esiste ancora la Patria? Abbiamo diritto a una Patria? Queste domande per tanti non hanno più senso, non di meno mi riassalirono leggendo l’intervento del generale Vincenzo Camporini al convegno: “Dio, Patria, Famiglia: esistono ancora?”. L’idea di Camporini di Patria Europea, sebbene magistralmente esposta, non mi convince. Intendiamoci, Camporini è una delle rare teste pensanti, libere e indipendenti che il mondo militare ha prodotto negli ultimi anni. In questo caso tuttavia, impostando le sue argomentazioni sulla peculiarità culturale dell’Europa – che pure è vera – scopre e non risolve l’equivoco a causa del quale, per esempio, da quando l’Europa è operante, la dualità “Italia nord-Italia sud” è più lacerante che mai. Camporini, musicofilo raffinato, ha titolato il suo intervento “Má Vlast” (La mia patria), ispirandosi ai sei poemi sinfonici, composti dal cecoslovacco Bedřich Smetana fra il 1874 ed il 1879. Il brano più noto, Moldava [ascoltalo qui], ha da sempre uno straordinario appeal internazionale. Persino l’inno nazionale israeliano Hatikvah [ascoltalo qui] è in parte significativa ispirato da questa melodia. Eppure, come vedremo, c’è l’immancabile marchio italiano. Indimenticabile, una sera a Praga: da un seminterrato, un’orchestra di giovani inondò il circondario con la Moldava. Anche le stelle si chinarono ad ascoltare. “Má Vlast” appare dunque indovinato per offrire un’idea di Patria che supera persino la mittel Europa, attraversa il Mediterraneo e conduce alla conclusione che Camporini illustra da par suo: “Solo con un consapevole riconoscimento di essere componenti di una patria comune (europea, NdR) con interessi condivisi, che richiedono strumenti integrati, tra cui in primis, un unico sistema di relazioni esterne e uno strumento militare integrato, che facciano giustizia di particolarismi sepolti dalla storia, solo in questo modo potremo tutti noi, francesi, spagnoli, lussemburghesi, bavaresi, italiani riappropriarci del nostro destino, in nome di una patria comune in grado di proteggerci e per la quale dobbiamo essere pronti a sacrificarci, così come eravamo pronti a sacrificarci negli anni ’70 per difendere il nostro modello di vita dalla minaccia totalitarista”. Bello e vero ma insufficiente. Perché? Dico per chiarezza che non sono, non voglio e non posso essere leghista: i miei avi strippavano i piemontesi con le roncole. Devo e dobbiamo tuttavia ammettere che “patria padana” non è espressione più artefatta di quanto non sia “Europa”. Eppure i più ostili all’identità padana non esitano a contrapporle la “patria europea”, nonostante questa sia più distante dalla maggioranza dei cittadini d’ogni stato europeo. La “patria padana” è vicina ai suoi cittadini, anche quelli più scettici circa la sua esistenza. A proposito di musica, tempo fa si strepitò al complotto contro la nazione italiana, quando il governatore del Veneto, Luca Zaia, preferì il Nabucco alle note di Mameli.Ebbene, complotto c’è davvero, tuttavia legittimato, concepito ben prima che la Lega nascesse. Il Manifesto di Ventotene [leggi qui], stampato nell’agosto 1943, fondò il Movimento Federalista Europeo. Fu redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, al confino durante l’estate del 1941. La versione iniziale, critica verso l’Unione sovietica, fu poi annacquata, mentre lasciarono la parte inflessibile verso la Chiesa cattolica: «Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz’altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile». Il documento anticipa le molte oscillazioni della storia italiana recente. Aldo Moro e Bettino Craxi furono maciullati da quelle righe. Il Manifesto, atto di fecondazione assistita della Ue, dichiara solennemente: «Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani»; marcia funebre, altro che Va’ Pensiero. Finché la Guerra fredda rimase calda tutto fu congelato. Le polveri del Muro non s’erano posate e si parlò di Costituzione europea (anticattolica), con quanto seguì, euro, Maastricht, e via tassando. Il movimento leghista nacque dalle martellate della Ue agli stati nazionali, coerentemente con gli obiettivi di Ventotene del 1941. Col credo ventoteniano, i padri costituenti iniettarono le Regioni nella Costituzione, marcando l’esplosione crescente del debito pubblico, esaltato con la riforma costituzionale del 2001:«La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Domande. A settant’anni – dico 70 – dal Manifesto europeista, sono abolite o almeno indebolite le nazioni francese e inglese? S’è indebolita l’Austria, almeno dal 1918 storicamente traballante? Se era da abolire la “nazione” perché furono riunificate (a spese nostre) le due Germanie? La nazione tedesca di oggi è meno “nazione” di quanto fu la Repubblica federale tedesca? Oppure essa tende alla nazionalità che ostentò il Terzo Reich? La cultura europea alla quale Camporini aggancia la “patria europea” esiste in quanto esito della cultura latina e poi di quella giudaico cristiana, che trovano una sintesi irripetibile in quella italiana. Tutte non di meno messe in disparte, umiliate: è un annuncio del suicidio dell’Europa alla quale peraltro dovremmo genufletterci, per eleggerla a Patria, dando preminenza alle culture barbare. Anche “Má Vlast” ha una antichissima radice italiana, “Il ballo di Mantova” altrimenti noto come Fuggi, Fuggi, Fuggi da questo cielo, (invito profetico oggi, ascoltalo qui) una canzone popolare del XVII secolo, che dà la melodia anche alla napoletana Fenesta Ca Lucive, [ascoltala qui] musicata da Vincenzo Bellini. Semmai fosse stata necessaria, una conferma di più che la civiltà napoletana è nel cuore di quella italiana, che fonda quella europea. La cultura tuttavia non basta, come si vede, a costruire/ricostruire la Patria, tanto più perché i nostri padri combattevano mentre canticchiavano le belle canzoni d’un tempo.Noi ci svendiamo, afoni e umiliati, prima ancora che ai tiranni europei ai loro prezzolati proconsoli nostrani. ©Proprietà riservata. È assolutamente vietata la riproduzione di questo testo, anche parziale, senza il consenso dell’autore.
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