“La Grande Bellezza” è Oscar. Evviva. Qui la recensione pubblicatami da Monsieur, un numero da non perdere.
Capita talvolta d’essere prevenuto dovendo decidere se vedere un film. Le precedenti pellicole del regista, la critica favorevole di Beppe Severgnini, l’entusiasmo degli inglesi e altro ancora (lo spiegherò più avanti) mi fecero diffidente verso La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Ero incline a non dedicargli due ore del mio tempo, presumendolo sulla scia de Il divo, la pellicola di Sorrentino, accantonata nel 2008 a favore di Gomorra di Matteo Garrone nella corsa all’Oscar; due squallori. Quando però ho letto la critica sprezzante da parte dei soliti sedicenti progressisti, mi sono risolto.
Sin dalle prime scene ci si sente rassicurati: non è solo la qualità delle pennellate narrative; giovano pure un’elegante citazione di Céline e soprattutto la raffinata presa in giro di certi freudiani, secondo i quali la sindrome di Stendhal non concerne né gli italiani né i giapponesi. Una stupidaggine, quest’ultima, evidente agli occhi di quanti romani incrocino frotte di giapponesi iperagitati. Sicché quando il regista fa svenire proprio un turista giapponese, travolto dalla grande bellezza di Roma, ho pensato che forse quanto seguiva non sarebbe stato così brutto; avevo visto giusto: è perfino toccante.
La mia diffidenza originava dal 1992. In quei mesi ci stavano spennando così come accade oggi: distruggendo la nostra industria, s’approfondì l’asservimento ai potentati tedeschi, inglesi, francesi e statunitensi. Mentre guardavamo alle stragi in Sicilia, misero le mani nelle nostre tasche e ridisegnarono il potere oligarchico per consegnarlo a quanti ci hanno ridotto nella corrente catastrofe politica, economica e istituzionale. Ai nostri confini orientali misero in ginocchio un paese amico, la Jugoslavia, che più tardi avremmo bombardato senza alcun voto del Parlamento; quisquilie rispetto alle porcherie che poi abbiamo consentito in Libia.
In quel 1992 apparve un film, celebrato capolavoro, Mediterraneo, di Gabriele Salvatores. Vinse l’Oscar a dispetto d’una trama inconsistente, d’una sceneggiatura approssimativa, reggendosi solo su sprazzi di dialogo istrionico del banale Diego Abatantuono e sul panorama mozzafiato dell’isola greca che fu proscenio.
La trama. Una mezza dozzina di soldati, comandati dal tenente Montini, appassionato di pittura, nel giugno 1941 sbarca su un’isola greca. Ben presto si rivelano adatti solo a fraternizzare con la popolazione, specie le donne, e farsi di hashish. Insomma, il peggio del peggio del vieto “italiani brava gente”.
Quel film piacque molto a chi temeva che nel 1992, finite le ragioni per rimanere quieta nella NATO, l’Italia alzasse la testa per rivendicare le terre portateci via con l’armistizio del 1945. Dopo tutto la Germania, di gran lunga più responsabile dell’Italia per la guerra, aveva ottenuto non solo la riunificazione ma anche una posizione di preminenza in Europa, al punto d’esigere e ottenere lo smembramento della Jugoslavia, per null’altro che bieco revanchismo.
Potete quindi immaginare gli applausi scroscianti a Gabriele Salvatores che lanciava messaggi pacifisti con la statuetta dell’Oscar fra le mani: un regista nelle vesti di marionetta. Ecco perché dopo vent’anni, quando ho sentito evocare Fellini, Flaiano e Pasolini quali spiriti guida per Sorrentino, mi sono detto:”Ci risiamo, è la solita autoflagellazione”.
Il film di Sorrentino invece è un capolavoro ma offre dell’Italia un’immagine persino di gran lunga peggiore di quella che uscì da Mediterraneo; peggiore perché incontrovertibilmente vera. Salvatores era stereotipato, fumettista (in tutti i sensi) e inverosimile. Sorrentino è autentico, carnale e credibile: descrive la borghesia romana con distacco e precisione di chirurgo. Non c’è un briciolo di ideologia nelle scene; questo è il reale motivo per cui a taluni non è piaciuto.
Jep Gambardella, un magistrale Toni Servillo nelle vesti di giornalista bon vivant, potrebbe essere indifferentemente berlusconiano, renziano o ex duro e puro; come lui sono intercambiabili tutti gli amici della sua cerchia. Jep, smagato e dolente, non lascia passare nulla a chi tenta di porsi su un piano alto, rivendicando presunti meriti politici. Indimenticabile la scena nella quale sputtana e riporta a terra Stefania, l’amica egocentrica e radical chic, una riconoscibile coscia lunga, già amante d’un leader “del Partito”. Ovvio che Veltroni abbia patito l’orticaria per un film così, mentre invece sdilinquiva per Salvatores. Neppure Massimo D’Alema, Denis Verdini o Roberto Maroni si saranno divertiti molto.
Sorrentino, che ha anche il merito di far recitare bene e credibilmente Sabina Ferilli e Carlo Verdone, spinge la forza narrativa del film fino all’ultimo secondo, fino all’ultima battuta (che non diciamo) per chiudere una storia drammatica e dolorosa con un lampo di speranza che contagia lo spettatore.
Al contrario di venti anni fa, finito il film, si è lieti di essere italiani, di recare una cultura tuttora stimolante per il resto del mondo. Speriamo che gli estimatori di Salvatores non lo vogliano dimenticare, nonostante i recenti richiami alla memoria del loro smemorato guru, Eugenio Scalfari.
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Verissiiimo!!!!
Caro Piero, non vorrei sembrarti dissacrante ma nel vedere il film non sono riuscito a trattenere il grido di dolore che caratterizzo la critica fantozziana alla “Corazzata Potemkin”.
Mi sfuggono totalmente i canoni di assegnazione degli Oscar. Ma non vorrei che per gli americani quanto più il film è palloso, tanto più è profondo e quindi meritevole. Poi, il fatto che è “made” terra di Fellini fa la differenza. …naturalmente Fellini è un’altra cosa.
L’ho trovato di una noia mortale!
Mi sono addormentato ai 2/3″!
Dialoghi, … dialoghi … e poi ancora dialoghi di una banalità sconcertante. E’ vero! Convincente la Ferilli, ma Verdone rimane l’imitatore di Sori.
Troppo bella la tua recensione per quel film.
Passiamo ad altro.
E va be’, in qualcosa dobbiamo dissentire sennò dovremmo sposarci, e proprio di questi tempi…