Tutti sanno cos’è l’IVA, forse. Del Cuneo Fiscale (CF) invece se ne parla spesso a sproposito. Esso è la differenza tra il netto in tasca al lavoratore dipendente e il costo totale del lavoro. Include Irpef e contributi pensionistici.
Il CF è diviso ad arte in due parti: una a carico del datore di lavoro, una come differenza tra retribuzione netta e lorda a carico del dipendente. Di fatto il datore di lavoro trattiene ambedue le parti versandole a sua volta allo Stato.
Il CF è applicato in quasi tutti gli stati europei: Belgio, Olanda, Germania, Francia ed Italia con valori circa al 100% del netto in tasca, al 30-40% in Spagna e Gran Bretagna, ancora meno in alcuni fuori area euro.
L’avvocato Giuseppe Conte propone una diminuzione Iva del 2% per aumentare i consumi.
Tutti ricevono volantini dei supermercati che offrono mirabolanti sconti del 30-40-50%, sottocosto, compri due paghi uno. A proposito, mai fidarsi delle percentuali, sono truffaldine per natura in economia e nel commercio, badare alle cifre assolute, quanto al chilo, quanto al litro, quanti sono gli occupati o il debito in più o in meno.
Si immagini una riunione di top manager per esaminare la diminuzione del venduto. Chi di loro proponesse di ridurre i prezzi del 2% verrebbe guardato con un misto di sospetto e pena. Il capo azienda e il capo del personale gli offrirebbero di dimettersi oppure a un check up per determinare le cure necessarie a far affluire sangue al cervello.
L’incredibile è che stipendiati professori d’economia si lancino in disquisizioni e pareri pensosi: basterà un meno 1%? Oppure è meglio un meno 2%? Questo dovrebbe convincere il consumatore ad accaparrare, vista l’occasione appetitosa ed irripetibile, tre o quattro cravatte invece dell’unica di cui ha bisogno per il matrimonio della nipote.
Rimettiamo la testa in alto e i piedi per terra: l’Iva è un moltiplicatore automatico; s’aumenta per ottenere un immediato introito fiscale; si diminuisce per registrare statisticamente un immediato freno all’inflazione. Angela Merkel ha abbassato l’Iva per esorcizzare il terrore dei tedeschi per l’inflazione.
Un discorso più complesso merita il cuneo fiscale: sommandone il ricarico sul lavoro nella fabbricazione, nell’amministrazione, nella logistica e nella vendita, pesa per circa un terzo del prezzo finale del prodotto prima di poter applicare l’Iva.
Ciò significa che per ottenere una variazione dell’1% nei prezzi occorrerebbe variare il cuneo fiscale del 3%.
Il cuneo fiscale beffa bellamente l’articolo 53 della Costituzione che imporrebbe la progressività degli oneri fiscali proporzionalmente al reddito. Nei fatti è interamente a carico del datore di lavoro. I lavoratori dipendenti non incassano e non pagano nulla di Irpef; lo stesso vale per i contributi pensionistici. È tassata l’occupazione: più lavoratori assume il datore di lavoro, più li paga, più paga di tasse (Irpef e contributi pensionistici). D’altronde è norma pratica che il dipendente tratti la propria retribuzione netta e non quella lorda. Si è mai sentito qualcuno negoziare il proprio costo del lavoro?
L’avvocato del popolo e il pensoso ministro dell’economia Roberto Gualtieri, caudati dai soliti professori, si dibattono nel dilemma: se abbattere di qualche punto il cuneo ai dipendenti affinché consumino di più; oppure alle aziende affinché aumentino il numero degli occupati. Valgono anche in questo caso le considerazioni fatte per i micro cambiamenti di Iva.
Passando a considerare le cifre ante Covid (quelle post sono ancora nel grembo di Giove), il bilancio dello Stato prevedeva tra Irpef e contributi pensionistici entrate sui 400-450 miliardi, la metà dei quali del tutto virtuali, riferendosi a pensionati e dipendenti pubblici. I buro-contabili li postano in uscite ed in entrate ma di denaro non si muove un bel nulla, semplicemente li trattengono alla fonte, cioè non li pagano. Quelli che vengono effettivamente pagati dai datori di lavoro sono circa 200 miliardi.
I consumi previsti delle famiglie ammontavano a 800 miliardi, al netto dell’Iva circa 650, meno i 200 di cuneo fiscale un netto ricavo aziendale di 450.
Se si eliminasse il cuneo fiscale caricandolo sui consumi, mantenendo fermi ricavi netti e prezzi, dovremmo imporre un’aliquota media di Iva pari all’80% del valore del venduto.
Dal punto di vista sociale verrebbe finalmente rispettata la proporzionalità fiscale: chi può spendere di più paga di più, ma aumenterebbe la tentazione di evadere l’Iva, piaga già molto diffusa con l’attuale aliquota media al 20%; su questo torneremo.
L’enorme vantaggio dell’eliminazione del cuneo fiscale, abbattendo il prezzo netto della produzione, indurrebbe le aziende (italiane ed estere) a tornare a produrre in Italia. Aumenterebbe l’export per la competitività sui prezzi, si ridurrebbe l’import per la convenienza del Made in Italy. Conseguirebbe la crescita degli occupati, quindi meno pessimismo, crescita del reddito e propensione ai consumi, dunque maggiori entrate fiscali.
Sarebbe necessario uno studio di previsione per meglio calibrare le aliquote Iva sia in base alle maggiori entrate fiscali, sia in base ai consumi primari, edonistici e di importazione.
Una vera rivoluzione, un ITALEXIT senza i problemi dell’ITALEXIT se accompagnata da una moneta elettronica di Stato, ma ciò sarà materia in un prossimo articolo.