Stupitevi a Lecce, al barocco; eppure le facciate romaniche, non meno sontuose, testimoniano progenitori di Federico II, esigenti almeno quanto i vescovi, succedutisi alla scomparsa dello Stupor Mundi e dei suoi disgraziati eredi.
Romanica o barocca, la pietra inebria di colori e forme sfrenate. Il segreto? Non lo svela la facciata d’una chiesa, a meno che non vi consentano un ponteggio per approssimarvi ai dettagli più minuti e distanti.
Tenete dunque d’occhio due piccoli manufatti, due pozzi, il primo accessibile, nel retro della chiesa di san Niccolò e Cataldo.
Proponetevi però di osservare soprattutto l’altro, un tesoretto nascosto dietro il seminario arcivescovile, dove busserete a metà mattinata, meglio se prendete appuntamento per telefono. Sono gentili, non fanno difficoltà.
Primavera 1709. Monsignor Antonio Pignatelli, vescovo di Lecce, commissionò il seminario a Giuseppe Cino, architetto sessantacinquenne in pieno fervore creativo, dalla cui mano nacque la chiesa di Santa Chiara, quella delle Alcantarine e innumerevoli altre mentre edificava quella del Carmine, impegnandovisi sino alla morte, di lì a 13 anni.
“Qui voglio il chiostro” indicò il vescovo “Al centro, un pozzo, più semplice di quell’altro degli Olivetani”. Alludeva al pozzo a baldacchino col quale Cino adornò il severo chiostro, costruito quattro secoli dopo la fondazione della chiesa, voluta da Tancredi d’Altavilla nel 1180.
Entriamo nel chiostro del seminario arcivescovile, in una bella mattinata soleggiata: il pozzo ad arco, su quattro gradoni, attende al centro di un rettangolo erboso.
La professionalità di quegli artisti fu indispensabile perché il manufatto è tuttora lì, a un palmo dal naso di chi lo osserva: impossibile che a monsignor Pignatelli sfuggisse la pur minima asimmetria, il più lieve tradimento del disegno. È infatti un’opera perfetta, nonostante le ingiurie dei secoli.
Oggi in Puglia per un muro a secco occorrono immigrati rumeni, piegati alla pietra da Ceausescu. Fino al dopoguerra gli scalpellini, pronipoti di quelli del pozzo ad arco, gareggiavano ad animare le pietre col martelletto sottile dalle punte aguzze, mentre cunei, trapano ad arco e subbie attendevano per adagiare ombre e rilievi sul calcare.
I primi Altavilla condussero e chiamarono scalpellini d’ogni contrada mediterranea in Sicilia e in Puglia, per cattedrali, castelli, tombe e palazzi gentilizi. Passò il romanico, dimenticato il gotico, i nipoti scolpirono il barocco per i pronipoti, senza prevedete il reset di Fiat, Italsider e tivvù.
Stupite per il pozzo di Cino e Pignatelli, col pensiero al manipolo d’artisti analfabeti che ricamò la pietra per voi.
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Bello e grazie per aver destato in me il desiderio di andarci e contemplare. Comunque oggi abbiamo in compenso molti laurteati e diplomati che valgono molto meno, ma molto, di quei analfabeti scalpellini artisti dalle mani intelligenti.