Pasquale Laporta, Maresciallo dei Carabinieri

Pasquale Laporta, maresciallo dei Carabinieri, seppe dire alto e forte “Signornò!” ben 55 anni fa, quando non v’era altra tutela se non la rettitudine dei Comandanti. Giusto ricordarlo quando l’obbedienza è trascolorata in servilismo, mentre l’insubordinazione appare un diritto. Un’Arma che non c’è più in un’Italia che scompare.

Arrivammo il 10 aprile 1965, nelle prime ore del pomeriggio. Dopo l’ultima salita fra due pareti scavate di roccia, ecco San Giovanni Rotondo, distesa sotto Monte Nero, Monte Castellana e Monte Calvo, la cima più alta del Gargano.
Mio padre andava a comandarvi la stazione dell’Arma. Conoscevo solo alcuni degli eventi che vi ci conducevano e della parte avutavi dal Generale Giovanni de Lorenzo, Comandante generale dell’Arma, nell’Italia destinata al declino, oggi sotto gli occhi di tutti.
Un ufficiale dell’alto comando di Bari telefonò tempo prima a mio padre per chiedergli se gradiva andare nel “paese di padre Pio”, disse proprio così, per lasciare la stazione di Latiano, nel Salento brindisino. L’inconsueta procedura sono certo non colpì mio padre, sebbene a quei tempi non si concepisse un alto ufficiale abbassarsi a “chiedere” addirittura  a un maresciallo se “gradiva” eseguire un ordine. Mio padre fu invece molto colpito dalla destinazione. Accettò all’istante. A San Giovanni Rotondo vi era andato il 10 settembre 1949 in viaggio di nozze. Mia madre me lo ricordava sovente. Mio padre chiese solo di potervisi trasferire dopo il parto dell’ultimo dei quattro figli, Maurizio, atteso per febbraio. Fu facile accontentarlo perché il collega da avvicendare si congedava a fine marzo.

Quando Latiano seppe della partenza di mio padre, numerosi espressero rammarico, non pochi fra quanti aveva perseguito in nove anni, fra omicidi, furti di animali e di preziosi, prostituzione, truffe, usura e una quantità di sparatorie, tanto fra delinquenti quanto contro i carabinieri. Aveva perseguito ma mai perseguitato, applicando umanamente la legge.
Tre biciclette garantivano la mobilità dei quattro carabinieri ai suoi ordini. Col velocipede perlustravano notte e giorno, paese e campagne, senza limiti di orario. Mio padre andava sovente da solo di notte, in bici, con la Beretta calibro 9, modello 1934, rassicurando mia madre: «Stai tranquilla, nessuno mi sparerà alle spalle». Alle spalle, mai. Non subì mai un agguato infatti, neppure di notte, controllando discretamente qui e là; non di meno ebbe una mezza dozzina di sparatorie coi malandrini colti sul fatto. Dormiva col mitra, il MAB 38, accanto al comodino; potei sbirciarlo e toccarlo solo un paio di volte, ebbro di curiosità. Non furono timori particolari a indurlo a tale compagnia, come disse a mia madre che inorridiva; non poteva tuttavia sapere che cosa aspettarsi quando lo chiamavano di notte e non v’era tempo di dotarsi nell’armeria.

L’ARMA SARÀ RITIRATA SULLE MURA DEL CASTELLO
Dopo sei anni a San Giovanni Rotondo, nel 1970 decisi di entrare  l’anno successivo nell’Accademia militare di Modena, nel corso per i Carabinieri. Per fare una sorpresa  a mio padre, consegnai la domanda al Brigadiere, mentre egli era assente. Qualche ora dopo mi mandò a chiamare attraverso lo stesso Brigadiere. Per comprendere quale fosse il nostro rapporto, gli davo del tu come se gli dessi del lei. Di fronte a lui mi sentivo come un libro aperto ed egli era di poche parole. «Siediti» disse mentre entravo, indicandomi una sedia davanti alla sua scrivania. Era un rituale di solito preludio d’una lavata di capo né breve né tranquilla. Mi parlò invece sorridendo: «Hai fatto domanda per Modena, per il corso Carabinieri». Mi squadrò per alcuni istanti; stava per complimentarsi? Gradiva la sorpresa? «Io ti conosco molto bene» scandì «Tu, carabiniere, col tuo carattere, ti cacci in un guaio, le cui conseguenze non puoi neppure immaginare». Il sorriso scomparve. Non ebbi tempo né modo di replicare: «E devi sapere che l’Arma non è più quella che immagini. E sarà ancora peggio. Sarà ritirata sulle mura del castello» improvvisamente il suo tono mutò, alzò la voce «e di quanto accadrà fuori dalle mura non importerà nulla a nessuno!» “Nulla” era con la C maiuscola; sorprendente perché il turpiloquio non gli era gradito, tutt’altro. Era il 1970, non c’era nulla nelle mie conoscenze che potesse minimamente dare significato a quelle parole, sebbene sapessi che mio padre non parlava a vanvera e questo aumentava esponenzialmente la mia incertezza. Col tempo capii che la sua dimestichezza, un’assiduità coltivata ogni volta che aveva occasione con Padre Pio, l’avessero indotto a chiedere al Frate come instradarmi.  In quel momento tuttavia non capii niente, proprio nulla, con una C  ancor più maiuscola e in grassetto. Che cosa intendeva mio padre coi carabinieri “sulle mura del castello”? Non gradiva andassi nell’Arma, ne fui sorpreso e tuttavia  questo mi fu chiaro; allo stesso tempo mi era del tutto oscura la ragione, come una lavagna nera, vasta e inquietante. Rimanemmo qualche istante in silenzio. Egli mi scrutava; non riuscivo a decifrarne lo sguardo. Non era arrabbiato, tutt’altro, percepivo quanto mi voleva bene.  Non so se fu proprio Padre Pio – mi osservava arcigno dalla foto alle sue spalle, sopra a Giuseppe Saragat ed Enrico Mino, sotto al Crocefisso  – quand’ebbi un rapido pensiero, inusuale per il mio carattere: «Dai, è tuo padre, ti vuole bene, ascoltalo». Come avesse udito, mi porse il modulo che avevo già compilato. Presi la biro dalle sue mani, cancellai “Carabinieri” e scrissi “Varie Armi”. Mio padre annuì: «Hai fatto bene, per te e per me. Col tempo mi capirai.»

PERCHÉ CAMBIARONO LA FORMULA DI GIURAMENTO?
Entrai in Accademia pochi mesi dopo. Il plotone allievi Carabinieri era una selezione elitaria, alla quale avrei potuto accedere a occhi chiusi, essendo ai primi posti del concorso. Ancora una volta mi chiesi perché mio padre me l’avesse impedito, sconsigliato; tanto più mi rodevo, agli ordini d’uno sciocco capitano di Viterbo, che dava del terrone a quelli da Roma in giù; io non perdevo occasione per fargli intendere quanto lo stimassie quello mi puniva. Passai insomma due anni alquanto problematici in Accademia; ero sempre punito grazie al mio simpatico capitano e avrei voluto dare le dimissioni, lasciando l’Accademia. Non volli però darla vinta a quello sciocco e trascorsi le mie serate fra la sala musica (col suo impianto stereo e vinili di superba qualità) e la biblioteca, dove cominciai a studiare a fondo l’Unione sovietica e la strategia militare sovietica. Mi piaceva molto ma la scelta, in qualche misura impostami da di mio padre, lasciò a lungo un retrogusto amaro. Fui assegnato infine all’Arma del Genio, il lavoro m’entusiasmò e i rimpianti svaporarono. Il 16 marzo 1978, intorno a mezza mattinata ero al circolo ufficiali della caserma Vittorio Veneto di Motta di Livenza, delizioso paesotto trevigiano, sulle rive del fiume Livenza, da cui prende il nome.
Io e il mio capitano prendevamo il caffè, mentre i nostri soldati godevano un po’ di riposo nell’addestramento col ponte che avremmo gittato di lì a poco sul fiume.
La radio annunciò il rapimento di Aldo Moro e stupimmo ambedue. Avevamo più volte constatato cosa fossero le misure di sicurezza attorno a un qualsiasi sottosegretario piccolo a piacere, in visita ai reparti: auto blindata e guardie del corpo a cinturalo come fosse fra nemici. Com’era possibile rapire facilmente il presidente della Repubblica in pectore, destinato a succedere a Giovanni Leone?
Un’ulteriore osservazione del mio amico mi colpì: «Se fanno un attentato al presidente del Senato, Amintore Fanfani, la Repubblica è nelle mani del presidente della Camera, Pietro Ingrao, comunista».
Non dissi nulla, preparandomi tuttavia al peggio. Approntai in assoluto segreto un piccolo, semplice ma efficace piano per selezionare gli uomini, prendere le armi, le munizioni, gli esplosivi e il necessario per cominciare la resistenza in caso di colpo di Stato. Giurai fedeltà alla Repubblica, ne ero e ne sono vincolato tuttora.
L’11 luglio 1978, due mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, fu promulgata la legge n. 382, “Norme di principio sulla disciplina militare”, modificando la formula di giuramento e smantellando il Regolamento di Disciplina Militare ed. 1964, un piccolo capolavoro che tutelava davvero la dignità dei militari. Fino alla legge 382/78 si giurò “fedeltà alla Repubblica italiana e al suo Capo”, dopo si giurò “fedeltà alla Costituzione”, cioè a chi aveva preso il potere. Era un preludio di colpo di Stato? Il mio allarme crebbe. Non accadde apparentemente nulla; man mano mi tranquillizzai. Da quel momento non persi più di vista le cerchie venute allo scoperto dalla morte di Aldo Moro in avanti. Rinfrescai i miei studi su Marx, Lenin e Stalin, sugli spetsnaz, come avevo cominciato a Modena per conto mio, per “studiare il nemico”, tenendomi occupato nella vasta e munitissima biblioteca, nelle sere in cui il mio amato capitano mi puniva con generosa assiduità, impedendomi di uscire. Acquistai e studiai un libro allora famigerato “In caso di golpe”. Manuale di guerriglia, della editrice Savelli, comunista. “Combattere il nemico con le sue armi”, pensai e rimasi in allerta.

POPOLO SCHIACCIATO FRA SIGNOROTTI E CORROTTI
Quell’estate non ebbi modo di parlare con mio padre perché non ci recammo in vacanza, come invece l’anno successivo, quando egli era in pensione da due anni. Il discorso cadde su Aldo Moro e gli raccontai del colloquio avuto quel 16 marzo, senza svelare i miei eroici piani da neo partigiano. Mi guardò con sofferenza evidente, indimenticabile il mesto sorriso: «Hai visto che avevo ragione?» Ancora una volta non capivo: «Hanno ucciso il generale Enrico Mino, hanno messo nell’angolo prima il generale De Lorenzo e poi il generale Vito Miceli, poi hanno ucciso Moro, dopo avergli fatto il vuoto intorno. Senza la complicità di papaveri dell’Arma sarebbe stato impossibile». Mi tornò in mente quanto disse il giorno in cui presentai la domanda per l’Accademia e cominciai a collegare. Iniziammo un lungo colloquio, lungo per quanto era possibile con lui, alquanto avaro di parole.
Gli chiesi finalmente perché a fine settembre del 1963, io ero rimasto solo. Egli fu trasferito da Latiano a Iglesias, in Sardegna, nel volgere d’un giorno; oggi pare incredibile; allora accadde proprio così: avemmo la notizia al mattino prima dell’ora di pranzo. Il giorno successivo mio padre partì per Iglesias. Avevo iniziato l’anno scolastico e non c’era il tempo materiale per organizzare l’iscrizione in un altro istituto. D’altronde dove? A Iglesias? Mi affidarono a una brava signora e scomparvero nel volgere di poche ore: mio padre in Sardegna; mia madre, mio fratello Giuseppe e mia sorella Anna andarono a Putignano, ospiti di zia Maria e zio Ciccio, due indimenticabili personaggi, due angeli custodi.
Intendiamoci, io fui l’unico felicissimo per quel cataclisma in famiglia. Avevo meno di 14 anni, rimasto solo, accudito da Angela, bravissima donna che non faceva mancare nulla e per giunta non mi controllava più di tanto; ero inebriato di libertà.
Mio padre non mi aveva mai dato dettagli sulla vicenda. Quel giorno del 1979 invece s’aprì. Latiano viveva d’agricoltura, uva, tabacco, grano, mandorle e fichi seccati, accodandosi l’indotto artigianale. Il potere era in mano ai beati possidentes, pochi notabili, com’accadeva nelle cittadine meridionali a quel tempo e in buona misura ancor oggi. Per sfuggire c’erano quattro o cinque modi: accaparrare un impiego pubblico, emigrare verso la Fiat o verso l’estero, diventare imprenditore o delinquente, oppure ambedue. La penuria di manodopera, causata dall’emigrazione, avrebbe dovuto rendere più facile la vita al bracciantato rimasto. Non fu affatto così. La macchina che stritolava la povera gente fu illustrata a mio padre da un ciabattino, Luigi Zacheo, segretario della locale sezione del Partito Comunista Italiano. Mio padre doveva controllarlo perché così era previsto da una circolare dei Carabinieri, in quanto era un attivista comunista di primo piano. Era soprattutto una mente acuta e una persona onesta, certificò mio padre. Tutto ruotava, spiegò, intorno al credito trascolorante in usura, schiavizzando intere famiglie ai “caporali”, dietro i quali c’erano i notabili dalle mani pulite. Il bracciante per lavorare cedeva al caporale una parte di salario, il cui ammontare, imposto dallo stesso caporale, senza possibilità di trattativa, doveva equilibrarsi tenendo conto che il padrone poteva assumere un altro caporale più profittevole. Quando accadeva questo, erano risse, accoltellamenti e sparatorie nella “piazza del sangue”, dove oggi domina una statua a commemorare il beato Bartolo Longo. Al caporalato s’affiancava la delinquenza fuori sistema: prostituzione, furti, estorsioni, rapine, sovente degeneranti in omicidio, senza escludere d’aggiogarsi di volta in volta a un potentato o all’altro.
Il ciabattino non era una spia o un confidente; aiutava mio padre a leggere nei fatti che accadevano. Di confidenti ve n’era numerosi fra i delinquenti, inclini a farsi guerra l’un l’altro. Occorreva innanzi tutto prevenire, usare il pugno duro coi recidivi e soprattutto impedire ai giovani sbandati di farsi arruolare. Mio padre non giocava sporco. L’onestà e la lealtà gli erano irrinunciabili. Mai nessuno fu torturato da mio padre, come invece accadeva e accade. Mai nessuno fu incastrato con prove false, come accadeva e accade. Tutto andò più o meno bene fino all’estate del 1963. Conclusi gli esami di terza media, aspettavo la fine di luglio, per andare a Putignano, nei trulli di zia Maria e zio Ciccio. Aspettai invano coi miei fratelli; la tensione in casa si tagliava col coltello e noi ragazzi non capivamo il perché.
 
UN PORTONE BRUCIATO ANNUNCIA TEMPESTA
Mio padre mi propose inaspettatamente di passare due settimane nella colonia marina Stella Maris, a Campomarino, sul mar Ionio, fondata e gestita dall’indimenticabile parroco della Chiesa madre, don Giovanni Mauro, a disposizione in estate per i giovani dell’Azione Cattolica e per i bisognosi. Eravamo una trentina di ragazzi e ci divertivamo moltissimo fra mare incantevole, cibo sano, giochi schiamazzanti e preghiere quotidiane. A sera s’arrivava sfiniti, crollando sui letti. Una delle ultime notti invece rimasi sveglio, con la finestra aperta, fuori dalla quale i due delegati dell’Azione Cattolica, nostri sorveglianti, stavano conversando. Percepii che parlavano di mio padre, drizzai le orecchie e sentii chiaramente uno dei due: «Il maresciallo Laporta lo faremo trasferire, visto che non vuole capire». Quando tornai a casa, stracciata la tessera dell’Azione Cattolica, riferii a mio padre. Egli mi chiese il nome del sibilante e non commentò. Come ho già detto, due settimane dopo aver iniziato la prima superiore, mio padre venne trasferito a Iglesias nel giro di ventiquattro ore. «Perché fosti trasferito in Sardegna?» chiesi finalmente dopo tanti anni, sapendo che questa volta mi avrebbe risposto.
Uno dei delinquenti di Latiano fece una pesante intimidazione a quattro braccianti che creavano problemi a un notabile perché non pagava i salari. I poveretti s’erano piegati infine alle minacce di T***. Tutti in paese sapevano com’era andata; nessuno denunciava né testimoniava. Per di più il notabile, noto spilorcio, non dette tutto il pattuito per gli sporchi servigi di T***, il quale gli vuotò una delle masserie, tagliandogli anche tre ulivi abbastanza giovani. Ve n’erano innumerevoli secolari e l’avvertimento era chiaro: se non paghi taglio anche i rimanenti.
Il notabile si presentò in caserma, esigendo che mio padre agisse contro T***. Non raccontò ovviamente l’antefatto e non fornì alcuna prova. Mio padre fece un sopralluogo; individuò un paio di contadini che sapevano i dettagli ma non fecero alcuna ammissione, lasciando intendere solo confidenzialmente che cosa fosse accaduto. I braccianti minacciati da T*** ammisero i fatti ma nessuno firmò alcunché, anzi ciascuno volle parlare solo con mio padre, senza altri testimoni.
Mio padre la tirò per le lunghe; non era facile convincere le persone a parlare ed era infine propenso a lasciar cadere la questione. Le dicerie infatti non erano prove e i fatti esposti dal denunciante erano palesemente carenti di verità. Stilò il suo rapporto per il magistrato e per il suo comando. Ne venne a conoscenza il notabilotto denunciante, il quale andò a protestare in caserma e si congedò bellicoso: «Ne riparliamo presto!».
Due notti dopo il portone della nostra casa fu malamente bruciato. Chiamato mestru Llucciu, il falegname di fronte alla caserma, il portone fu riparato. Mio padre pagò l’artigiano e non commentò. Non disse alcunché al comando superiore che aveva evidentemente informato il possidente circa la denuncia.
Piombò in caserma un tenente, ben a conoscenza dei danni al portone e dei fatti, anzi addirittura informato dell’esistenza di due nuovi testimoni: «E tu come mai non li hai individuati?» Mio padre non esitò: «Perché sono falsi testimoni». Il tenente non se ne dette per inteso: «Tu non preoccuparti di questo. Io ti ordino di arrestare T*** e farlo confessare in un modo o nell’altro».
«Signornò»
«Come hai dettoooo? Ho capito bene? Obbedisci!»
«Ha capito benissimo, signor tenente: si-gno-r-nò! Finché comando io qui, queste porcherie non si fanno».
L’ufficio di mio padre era diviso dalla cucina del nostro alloggio solo da una porta. Sentimmo il tenente urlare come un ossesso: «Tu fai quello che ti ordino, altrimenti ti sbatto in Sardegnaaaa». Mia madre era livida, io non capivo che cosa stesse accadendo.
Dopo pochi giorni giunse l’ordine: mio padre doveva “immediatamente” lasciare il comando della stazione al suo Brigadiere e partire il giorno successivo per Iglesias. Dopo pochi minuti dalla lettura dell’ordine di trasferimento, il tenente telefonò: «Allora, hai cambiato idea?» Mio padre non lo fece neppure finire: «Signornò» e mise giù il telefono.
Iniziò un turbinio indimenticabile, per il quale mio padre sembrò tuttavia alquanto preparato. Arrivò una Fiat 1800; prima accompagnò me a Francavilla Fontana da Angela. Con la stessa auto mia madre, mia sorella Anna e mio fratello Pino furono condotti a Putignano a casa di zia Maria e zio Ciccio. Mio padre il giorno successivo si recò a Brindisi, da lì a Bari, quindi fino a Roma, poi a Civitavecchia, infine il traghetto per la Sardegna e proseguì sino a Iglesias.

DI FRONTE AL GENERALE DE LORENZO
Le comunicazioni fra noi erano affidate solo al telefono, alquanto primitivo a quei tempi. Piovve sul bagnato. Mia sorella dopo poco tempo fu ricoverata per una malattia molto seria nel policlinico di Bari. Mia madre, incinta, faceva la spola fra Putignano e Bari. Essa tempestava ogni giorno di telefonate la Legione Carabinieri di Bari. I suoi interlocutori la blandivano. Mia madre conosceva i dettagli della sporca faccenda e minacciava quotidianamente di svelarli alla stampa. Mio padre invece glielo aveva espressamente proibito: l’Arma non si tocca, non deve essere macchiata per colpa dei farabutti, cosicché le minacce di mia madre, semmai preoccuparono sulle prime, ben presto si svelarono vane quanto le sue disperate telefonate. Il suo interlocutore continuò a blandirla senza curarsene.

Mio padre aveva chiesto udienza a tutta la scala gerarchica. Prima di adire l’ultima istanza, mi telefonò per riferire al tenente che era inutile che lo tenesse a Iglesias, perché quello che voleva fare lui, il tenente, non sarebbe mai stato possibile: mio padre avrebbe testimoniato in tribunale.
Rammentai d’aver ripetuto più volte le parole dettatemi da mio padre, trascritte per riportarle fedelmente al tenente, pur senza capirle sino in fondo.
Il tenente mi ricevette col sussiego dovuto a un ragazzino. Gli riferii il messaggio di mio padre, rimase un po’ interdetto e poi mi congedò: «Tuo padre rimane in Sardegna».
Mio padre chiese di essere ricevuto dal Comandante generale dell’Arma, Giovanni de Lorenzo. Passarono alcune settimane e arrivò la convocazione a Roma, dove giunse il giorno precedente, dopo essere sbarcato a Civitavecchia. Di buon mattino si presentò in viale Romania, dove ha sede il Comando generale dell’Arma. La convocazione era per le undici ma non voleva rischiare assolutamente un ritardo. Alle undici in punto entrò nell’ufficio del Comandante.
«Era un ufficio enorme. De Lorenzo attendeva in piedi, col monocolo, pollice indice e medio delle mani poggiati alla scrivania. Dopo che mi fui presentato, disse solo una parola: “dimmi”». Mio padre raccontava come se quella scena l’avesse rivissuta mille volte «Parlandogli mi sentii fiducioso, aveva un viso severo ma onesto. Vidi fra i suoi nastrini, quello come il mio; avevamo fatto la campagna di Russia. Mi sentivo a mio agio; mentre l’aiutante di campo prendeva appunti, io esposi tutti i fatti, i nomi, le circostanze. Riferii com’ero stato trasferito in Sardegna. Feci un rapido cenno alle condizioni di tua madre e di Anna, solo un cenno. Fui invece dettagliato sui fatti e sulle persone, nient’altro. Riferii anche il messaggio che ti avevo affidato per il tenente» Mio padre sorrise allegro «Mi congedò con un cenno del capo, senza una parola, nulla, neppure un muscolo del viso di de Lorenzo si mosse. Tutta la fiducia provata all’inizio svanì, convinto d’aver fatto un altro buco nell’acqua, quello definitivo, segnando il disastro per la famiglia, per me e per voi»

DOPO LA DISPERAZIONE, LA GIUSTIZIA
Mio padre continuava a sorridere raccontando la sua disperazione e la cosa mi lasciava un po’ così: «Il viaggio di ritorno fu infernale. Non chiusi occhio, chiedendomi che cosa sarebbe stato di me e di voi. Ero disperato; Anna in ospedale, tua madre aspettava Maurizio, Pino con gli zii, tu eri a Francavilla» Ripeté innumerevoli volte “ero disperato”, infine disse con un indimenticabile sorriso: «Se non avessi avuto fede in Dio mi sarei suicidato. Per tutta la notte ho pregato, invocavo Padre Pio, mentre ero tentato di buttarmi dal traghetto» e continuava inspiegabilmente a sorridere «Arrivato a Iglesias, quando entrai nella mia camera, c’era una busta sul letto: mi ordinavano di tornare “immediatamente” a Latiano, riassumere il comando della stazione e rimanervi in attesa d’una nuova destinazione». A quel punto ridevamo ambedue: «Mi misi in ginocchio per ringraziare Domine Iddio che aveva ascoltato le mie preghiere. Arrivato a Latiano, il tenente era già partito per Iglesias. Non posso esserne certo, tuttavia credo che il mio traghetto e il suo s’incrociarono».
De Lorenzo aveva messo a bollire tutta la linea di comando. Lo confermava la telefonata mielosa ricevuta dopo pochi giorni dal capufficio personale per chiedergli se “gradisci il paese di Padre Pio?”. Era lo stesso ufficiale che aveva preso ripetutamente in giro mia madre.
«Quando scoppiò lo scandalo Sifar-de Lorenzo non sapevo che cosa pensare. Ad agosto del 1968, un mese prima che Padre Pio morisse, un ufficiale del comando generale mi chiese di agevolargli un incontro con Padre Pio; era angosciato, molto angosciato. Fummo ambedue testimoni di eventi prodigiosi quando Padre Pio gli assicurò la sua protezione. Egli mi confidò che cosa stava accadendo dentro l’Arma ed era convinto che fosse un declino inarrestabile. Mi confermò che il generale Giovanni de Lorenzo era un galantuomo». Mio padre mi mise a parte finalmente di che cosa gli fu detto, dandogli la mia parola di non svelarlo. Non potevo immaginare quanto mi sarebbe stato utile per “leggere” la realtà, senza pregiudizi, quando sarei approdato all’Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa.

******

Eppure, a quel tempo, nonostante il suo racconto, ero ancora convinto che mio padre avesse esagerato, sconsigliandomi l’arruolamento nell’Arma. Certo non gliene volevo, lo aveva fatto per il mio bene dopo tutto, ma insomma aveva esagerato.

Ci son voluti anni a capirlo che lo aveva fatto per il mio bene e  no, non aveva affatto esagerato. Tutto quello che mi disse si sta compiendo. Giorno dopo giorno abbiam visto comandanti complottare per afferrare il potere a ogni costo. Abbiamo visto il maresciallo Antonino Lombardo, suicidato e dimenticato come un cane in autostrada. Abbiamo visto comandanti genuflessi ad antimafie che puzzano della simmetria perfetta che Ennio Flaiano e Mino Maccari denunciarono per il fascismo e l’antifascismo. Abbiamo visto comandanti che non sapevano che Stefano Cucchi fu torturato, scaricando le responsabilità sull’ultime ruote d’un carro sgangherato. Abbiamo visto comandanti che passano in rassegna le truppe, al guinzaglio d’un appuntato del Cocer. Abbiamo visto comandanti che s’indignano perché entrano in gioco i sindacati, dimenticando la miseria del loro comandare. Abbiamo visto comandanti ignorare i suicidi dei carabinieri. Abbiamo visto comandanti che disertano la responsabilità morale delle violenze carnali commesse da sottufficiali il cui senso dell’onore e la cui disciplina sono in perfetta sintonia con la decadenza nei comandi. Abbiamo visto comandanti distratti di fronte a omicidi. Abbiamo visto comandanti ordinare irruzioni nelle Chiese, calpestando leggi e Costituzione, cui hanno giurato fedeltà. Abbiamo visto comandanti esprimere solidarietà a un generale dal passato oscuro e tacere davanti agli arresti domiciliari al mare a un assassino americano che ha sventrato il brigadiere Cerciello come un maiale. Questa lunga lista di orrori occorre aggiornarla di frequente, arricchendola di vicende sempre più disgustose delle precedenti.

Si giustificano le sozzure con l’ultimo rifugio dei farabutti, la retorica: “usi obbedir tacendo” e “noi rischiamo la vita”, trascurando di aggiungere “quella degli altri”. Mai infatti si videro, come in questi giorni di oltraggi costituzionali, mai si videro tanti carabinieri sulle strade, con gli elicotteri, mai si videro altrettanti carabinieri assalire i centri di spaccio, proteggere le case oltraggiate da ladri e rapinatori omicidi. Mai si videro comandanti difendere il lavoro dei propri uomini vanificato da magistrati lassisti.

Il motto dell’Arma “Nei Secoli Fedeli” ci interroga: «A chi?»
Mio padre, se qualcuno s’avventurava a dire: «Carabinieri e Polizia» correggeva brusco chiunque fosse l’interlocutore: «Non siamo la stessa cosa: la polizia risponde al Governo, i Carabinieri allo Stato». Oggi i Carabinieri sono ritirati sulle mura del castello, a difendere chi oltraggia la Costituzione, fianco a fianco con la Polizia di Stato, tutto sommato essa sì coerente da sempre nella sua milizia. Che cosa possiamo dedurne se non che ci sia una inutile duplicazione delle forze di polizia? Divide et impera? Suvvia, siamo seri, lo zelo di ambedue le parti può solo raddoppiarsi unificandole e quindi risparmiando quanto si va dilapidando. E’ davvero questo che vogliono i Carabinieri, quelli veri, tuttora esistenti e operanti? Quelli che in silenzio compiono e vogliono compiere il loro dovere sino in fondo, costi quel che costi, proprio come mio padre?
Può capitare che le circostanze portino un ufficiale davanti alla scelta se tradire o meno il proprio giuramento di fedeltà.
Sarebbe auspicabile in tal caso che i responsabili avessero la decenza di seguire l’esempio del comandante Carlo Fecia di Cossato, una dignità non di meno recuperata da innumerevoli semplici Carabinieri suicidatisi, vittime innocenti e dignitose cui va il nostro rispettoso pensiero.
Comandanti, se non siete in grado di recuperare lo spirito dell’Arma se non con vane ostentazioni retoriche, se non potete tirarvi un colpo di pistola alla tempia, almeno compilate una letterina di dimissioni, per ritirarvi con una lauta pensione. Sarebbe auspicabile per il bene della Patria, della Costituzione e di quanto rimane dell’Arma, oramai prontissima a fondersi con la Polizia di Stato, raddoppiando lo zelo della sgangherata sbirreria Italia.

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Raffiche di Bugie a Via Fani – Il Libro

Informazioni su Piero Laporta

Dal 1994, osservate le ambiguità del giornalismo italiano (nel frattempo degenerate) Piero Laporta s’è immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come d'altronde sarebbe stato naturale considerando il lavoro svolto a quel tempo, (Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa). Ha collaborato con numerosi giornali e riviste, italiani e non (Libero, Il Tempo, Il Giornale, Limes, World Security Network, ItaliaOggi, Corriere delle Comunicazioni, Arbiter, Il Mondo e La Verità). Ha scritto “in Salita, vita di un imprenditore meridionale” ed è coautore di “Mass Media e Fango” con Vincenzo Mastronardi, ed. Leonardo 2015. (leggi qui: goo.gl/CBNYKg). Il libro "Raffiche di Bugie a Via Fani, Stato e BR Sparano su Moro" ed. Amazon 2023 https://shorturl.at/ciK07 è l'inchiesta più approfondita e documentata sinora pubblicata sui fatti del 16 Marzo 1978. Oggi, definitivamente disgustato della codardia e della faziosità disinformante di tv e carta stampata, ha deciso di collaborare solo con Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti. D'altronde il suo più spiccato interesse era e resta la comunicazione sul web, cioè il presente e il futuro della libertà di espressione. Ha fondato il sito https://pierolaporta.it per il blog OltreLaNotizia. Lingue conosciute: dialetto di Latiano (BR) quasi dimenticato,, scarsa conoscenza del dialetto di Putignano (BA), buona conoscenza del palermitano, ottima conoscenza del vernacolo di San Giovanni Rotondo, inglese e un po' di italiano. È cattolico; non apprezza Bergoglio e neppure quanti lo odiano, sposatissimo, ha due figli.
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31 risposte a Pasquale Laporta, Maresciallo dei Carabinieri

  1. Roberto scrive:

    Nel “girare” su internet per trovare notizie reali sui i “poteri” che stanno guidando questa pandemia ho trovato questa meravigliosa testimonianza su suo padre. Ne sono rimasto commosso e stupito.
    Commosso perché ho rivissuto situazioni terribili che ho vissuto in anni successivi alla sua narrazione e non riuscivo a spiegarmi il livello di degrado raggiunto ( immenso) . Stupito perché, con molti anni di anticipo rispetto alle mie esperienze ed alle mie analisi, questi “mostri” nel senso latino del termine, già erano all’opera e suo padre ne era ben consapevole e questo va ad ancora maggior merito.
    Ha fatto bene a pubblicare questa memoria: nella sua crudezza rincuora e conforta tante persone oppresse e mortificate nella loro dignità.
    È stato fortunato ad avere un padre così !
    Ed è una fortuna “universale” che ci sia un “piccolo resto” che ancora ha nel cuore questi valori.
    Un GRAZIE a suo padre ed a lei.
    Di cuore.

      • carlo scrive:

        Gentile Piero ,
        nulla è ancora perduto, anzi tutto sta per iniziare di nuovo, mi creda . Ho fifucia che dopo che questa setta che governa l’ Europa e l’ Italia sarà giustiziata per i sui crimini dal popolo, bisognerà ricostruire di nuovo e uomini come lei possono fare la diffrenza grazie alla sua esperienza per ricostruire le antiche mura cadenti e le ampie brecce aperte dal nemico . Io intravedo già all’ orizzonte in Aimone D’ Aosta il futuro sovrano d Italia , ora solo Duca di Puglia che rimettera un pò di ciose a posto . https://it.wikipedia.org/wiki/Aimone_di_Savoia-Aosta_(1967)
        Nulla è ancora perduto ,ma tutto sta per ricominciare …….solo abbi fede !

  2. Danilo Bonelli scrive:

    Quale carabiniere in congedo ho letto con interesse ed emozione lo splendido racconto del signor Piero Laporta, ricavandone l’impressione che – nonostante tutto – non si sia affatto appannata la stima e l’affetto dallo stesso provata nei confronti di ciò che è stata nei secoli l’Arma Benemerita…..e purtroppo coniugo il verbo al passato nell’impossibilità di farlo al presente. Esprimo un solo rammarico : quello che il signor Piero non abbia fatto l’ufficiale dei Carabinieri perchè avrebbe portato un valore aggiunto di dedizione e di onestà morale.

  3. Antonio Comi scrive:

    E’ stata una fortuna del Destino avere un Padre come il suo…io poi non credo al Caso..ma al Karma..è così che vedo il Destino ( Le manderò in copia qualche scritto…)
    Non ho una cultura economica, ma mi sto leggendo tutti gli articoli di L. Prando…e i suoi..
    e quando le manderò qualche riflessione…la prenda come quella di qualcuno che ha fatto un lungo percorso tortuoso…anche nella cultura dell’Estremo Oriente .
    Per intanto…a me sanguina il cuore di non poter far molto per il mio Paese..ma non vorrei venisse svenduto a qualcuno con gli occhi a mandorla…con la presunzione di non avere avuto contatti…anche in territorio neutro..in Vaticano…forse pensano che sia come il tibet..ma non è così .
    Sono rimasto disgustato dal ricevimento a Ciampino della milanese ” liberata ” ?…sarebbe ora che impiegassimo meglio i nostri risparmi…per ora…un caro saluto…

  4. Gianluca Leone scrive:

    Colonnello Laporta, si all’epoca era il mio Colonnello a Motta di Livenza, ora capisco tante cose, specialmente una sua reazione in difesa di un Aiutante nei confronti di un Capitano alquanto “presuntuoso”…………….. Gianluca Leone 10° Scaglione 1998.

  5. Giancarlo Naldi scrive:

    Caro Piero,
    ho letto con emozione lo splendido ricordo di tuo padre che ha confermato intuizioni mai approfondite non solo perchè esterno all’Arma, ma anche perchè non ho mai voluto crederci preferendo legare il mio pensiero ai fulgidi esempi di dedizione al servizio di coloro, e sono tanti, che ancora oggi rimepiono le cronache con comportamenti encomiabili.
    Onore al tuo papà, dunque, ed a tutti i Carabinieri che hanno dato la loro vita. Onore, soprattutto, alle loro mogli ed ai loro familiari che ne hanno condiviso i problemi e le confidenze in vita e pagato amaramente la prematura scomparsa.
    Infine, come nota di colore, constato quanto sia simile la mia storia alla tua. Anch’io sono figlio di un Sottufficiale Motorista dell’AM ed anch’io ho dovuto estorcergli la firma alla domanda di partecipazione al concorso perchè minorenne. Memore delle sue disavventure di volo (pochi mesi dopo l’inizio delle ostilità, precipitò paradosalmente con un S-79 in fase di atterraggio durante un volo di rischieramento dello Stormo a Benina dopo essere sopravvissuto a delle azioni di bombardamento su Malta, procuradosi ferite tali da costringerlo in ospedale per lunghissimo tempo perdendo l’idoneità al volo) soleva dirmi che in Aeronautica uno era poco ma due erano troppi. Firmò la domanda comnvinto che sicuramente mi avrebbero scartato. La vincita del concorso divenne pertanto per lui motivo di pena e non di gioia.

    • Piero Laporta scrive:

      Caro Giancarlo, ma ti rendi conto? Siamo figli di una generazione immensa per dignità e senso del dovere. Sento di aver fatto bene a scrivere per dare coraggio a quanti sono schiacciati dalle mediocrità impossessatesi dello Stato. Che Dio ci aiuti, caro Giancarlo, che Dio ci aiuti.

      • Renzo Riva scrive:

        Fai bene a dire che Dio ci aiuti.
        Purtroppo il disfacimento è arrivato anche in Vaticano con l’argentata chioma dell’ineffabile argentino.

        • carlo scrive:

          L’AZIONISMO CATTOLICO
          di Paolo Gulisano
          Loro hanno sempre prediletto per se stessi la definizione di cattolici democratici (sottointendendo implicitamente che il resto della cristianità italiana fosse autoritaria, regressista e parafascista), ma l’opinione pubblica li conosce meglio come “cattocomunisti”, anche se forse sarebbe più opportuna la definizione di “clerico-comunisti” o “clerico-progressisti”.

          Il clericale non pensa che l’istituzione sia necessaria. Il clericale pensa che l’istituzione sia sufficiente. Ciò non tanto perché è comunque sgradevole vedere accostato il termine “cattolico” a quello di “comunista”, ma soprattutto perché la storia di questa influente corrente di pensiero – mai radicatasi a livello popolare – è la storia di come nella seconda metà del nostro secolo determinate forme di clericalismo si siano coniugate con le ideologie marxiste e progressiste. Il clericalismo è una sorta di vizio che può prendere i cristiani, sia preti che laici, per cui alla sostanza della fede, cioè l’adesione a Cristo, viene sostituita la forma, e lo stesso cristianesimo non diventa che un mezzo per raggiungere fini differenti da quelli indicati dal Vangelo. Il clericale non si avvale dell’autorevolezza della Fede, ma dell’autoritarismo derivante dalla propria posizione e dal proprio ruolo nella società ecclesiale. Il clericale non è colui che pensa che l’istituzione è necessaria, ha osservato Giacomo Noventa, ma colui che pensa che è sufficiente. Inoltre il clericalismo avverte come insufficiente il solo cristianesimo per i propri progetti e finisce per coniugarsi con le ideologie in auge, motivando questa scelta con una machiavellica giustificazione dei propri fini. Naturalmente queste scelte devono apparire al mondo “costose”; così il clericale è sempre un cattolico “tormentato” che pur essendo un cristiano assolutamente mondano, deve prediligere una “spiritualità tutta interiore”.
          I “professorini cattolici” a braccetto con i togliattiani in nome dei “valori comuni”.
          Tali caratteristiche descrivono non solo il pensiero dei clerico-comunisti, ma anche il tipo umano che essi hanno rappresentato, e l’ambiente dove da sempre si sono formati, che è quello ovattato dei corridoi delle curie e dei chiostri dell’Università Cattolica. L’Ateneo fondato da Padre Gemelli (anch’egli d’altronde sempre incline a coniugare il proprio cristianesimo con le ideologie in voga, il nazionalismo prima e il fascismo poi) fu la prima fucina dove queste idee vennero elaborate. Vediamo quali furono i protagonisti di questa prima fase ideologica (che peraltro riprendeva vecchie suggestioni del Modernismo che era andato “in sonno” durante il pontificato di Pio XI): sono i cosiddetti “professorini”, il cui leader riconosciuto fu Giuseppe Dossetti. Fin dal 1946 questo giovane docente della Cattolica aveva richiesto alla direzione Dc una più stretta collaborazione con i comunisti, in nome dei “comuni valori”. Il partito cercò di metabolizzare le istanze innovatrici del trentenne enfant prodige della politica associandolo alla gestione del potere. Venne così nominato vice-segretario nazionale. Intorno a lui si coagulò immediatamente un gruppo di intellettuali la cui caratteristica principale apparve essere l’utopismo: “anime belle”, devote al limite del misticismo, che inseguivano il sogno della realizzazione, qui e subito, del migliore dei mondi possibile. Oltre a Dossetti le figure di spicco erano quelle di Giuseppe Lazzati, ex-internato in Germania, che avrebbe percorso in seguito una brillante carriera all’interno dell’Università Cattolica fino a diventarne Rettore durante i difficili anni ’70, nei quali Lazzati si distinse per l’apertura a Sinistra e l’ostilità ai cattolici “integralisti”, e altri studiosi quali Ardigò e Galloni. Anche Amintore Fanfani visse da protagonista la stagione dei professorini, per distaccarsene ben presto. Una citazione a parte la merita invece Giuseppe La Pira: anch’egli docente universitario, siciliano trapiantato a Firenze, condivideva altre caratteristiche comuni del gruppo come la intensa spiritualità e lo stato di celibato.
          Azionismo in chiave democristiana.
          Da Gemelli a Lazzati, da Dossetti a Scoppola. Un’astiosa rivendicazione di purezza morale. Il dossettismo era una sorta di “azionismo” in versione cattolica: una pretesa di assoluta dirittura morale dei suoi componenti, una febbrile propensione all’impegno umanitario per salvare il mondo, un radicale antifascismo che si traduce in una ostilità astiosa verso tutto ciò che appare anche solo come non-progressista. La Pira venne eletto sindaco di Firenze nel 1951 e rimase alla guida della città fino al 1957, e in seguito dal 1961 al ’66. La sua attenzione e il suo impegno furono rivolti, più che ai problemi amministrativi del capoluogo toscano, ai grandi temi del pacifismo, del disarmo, della distensione. Interpretò il ruolo del profeta che dialogava coi potenti, Kennedy e Kruscev, per trasformare le spade in aratri. La sua ingenua buona fede lo rese completamente sordo alle grida disperate che venivano dalla Russia del dissenso che moriva nei Gulag. Il dossettismo andò in crisi proprio nel 1951, l’anno dell’elezione a sindaco di La Pira: Dossetti si ritirò dalla vita politica, imitato in breve tempo da Lazzati, per scegliere in seguito la vita monastica. La Dc di De Gasperi e Scelba assorbì quel che restava dei giovani rampanti: in un grande partito di governo c’era posto per tutti. I clerico-progressisti si insediarono stabilmente nelle strutture chiave di partito come i mezzi di comunicazione e le scuole-quadri, intellettuali vezzeggiati e privilegiati.
          Gli estensori dei catechismi e dei giornali episcopali eletti nelle file del Pci.
          Omaggiati nonostante avessero confuso il “Che fare” di Lenin con il Concilio Vaticano II. Nel frattempo però il luogo privilegiato attraverso il quale diffondere le loro idee divenne l’istituzione ecclesiastica: ritiratasi dalla prima linea della politica si attestarono nelle strutture ecclesiali ed episcopali, per uscirne poi fuori a sorpresa. Fu il caso del professor Gozzini, estensore dei Catechismi della Cei negli anni del Post-Concilio, di Pratesi e di Raniero La Valle, per anni direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, che negli anni ’70 vennero eletti al Parlamento come “indipendenti” nelle fila del Partito Comunista. Gli anni che seguirono il Concilio Vaticano II avevano visto la scena culturale del cattolicesimo italiano dominata dai maritainiani. Tra questi, oltre ai sopracitati intellettuali prestati al Pci, spiccò Pietro Scoppola. Per anni lo storico e il gruppo di intellettuali (Gaiotti, Pedrazzi, Ardigò) che con lui avrebbe costituito la Lega Democratica influenzò pesantemente le scelte pastorali e culturali della Conferenza Episcopale Italiana, omaggiati e privilegiati nonostante l’evidente “tradimento” perpetrato in occasione del Referendum sul divorzio. Dopo il dossettismo e il maritainismo, intrisi di idealismo elevato e utopismo messianico, il clerico-progressista è divenuto ora un seguace del giacobinismo: è il caso emblematico di Rosy Bindi, allevata negli ambienti della Fuci e del Meic di Scoppola e soci. Il suo Ppi supera definitivamente il levantino pragmatismo della vecchia Sinistra Dc, quello che permise a Moro e De Mita di cavalcare per anni la tigre, e sceglie di appiattirsi sulla nuova sinistra: senza più la retorica sui valori comuni e gli abbracci ecumenici e pacifisti, in nome dell’odio per il nemico (il non-progressista) e per l’attaccamento inveterato al potere. Non suonano dunque strani i recenti pesanti giudizi dell’Osservatore Romano, ai quali si sono aggiunti questa settimana quelli dei gesuiti, che vergando una sorta di de prufundis per il partito di Bindi e Scalfaro, dalle colonne di Civiltà Cattolica si sono chiesti con ironia “perché un cattolico dovrebbe votare Ppi?” e rimproverato agli ultimi epigoni della sinistra Dc l’assenza di iniziativa politica, l’appiattimento su posizioni altrui e di aver concentrato la propria attenzione all’occupazione di spazi istituzionali e di sottogoverno.
          tratto da Tempi, anno V, 27.10.1999, n. 40.

  6. Nicola Ficco scrive:

    Caro Piero ti leggo sempre con interesse e voglia di comprendere ciò che tu riveli. Questa volta sono anche un po’ emozionato perché la figura del Maresciallo La Porta mi ricorda quella di mio suocero: uomo tutto d’un pezzo, maresciallo dei Carabinieri reduce di guerra, aspro critico del comportamento degli Ufficiali dell’arma dopo l’8 settembre, rifiutò di accettare un compromesso su un caso di corruzione e venne trasferito. Preferì dimettersi, rinunciando a non pochi benefici. Sono uomini di altri tempi, portatori di valori solidi e ben radicati nella civiltà perlopiù contadina del passato. Sono stati di esempio per noi.

    • Piero Laporta scrive:

      Caro Nicola, sto ricevendo tante testimonianze analoghe alla tua, su FB e su Wathsapp; mi consola questa conferma che mio padre no fosse solo. Egli lo sapeva bene e me lo disse: sono tanti che rischiano di essere schiacciati, l’ho fatto anche per loro. Parole ancora più vere oggi, mentre la mediocrità impazza senza limiti.

  7. Armando Stavole scrive:

    Piero, fratello ideale che non ho mai avuto, mi sono commosso ed ho sentito lo stesso orgoglio e dolore che sento in te, ma…boia a chi molla ed onore ai nostri padri.
    Ti voglio bene.

    • Piero Laporta scrive:

      Caro Armando, grazie. E’ ora di urlare la verità dai tetti: l’Italia è stata rovinata da ladri e imbecilli. Non possiamo più tollerarlo. Ti voglio bene anch’io come sai.

  8. sigmund scrive:

    Una descrizione avvincente del segno dei tempi. I carabinieri e la Chiesa erano le due ultime realtà a cui fare riferimento nel degrado generalizzato della società. Purtroppo dobbiamo constatare che entrambe le Istituzioni sono state infiltrate e livellate alla miseria di questi tempi senza onore e senza memoria. Meno male che c’è chi ci racconta come eravamo quando il dio denaro non aveva spiazzato il Creatore.
    Una sola domanda: abbiamo toccato il fondo? E’ arrivato il momento di rialzare la testa e ritornare una società timorata di Dio e dunque rispettosa dell’uomo?

  9. Emanuele scrive:

    Mi complimento per tutto, ma soprattutto per il coraggio intellettuale che dimostra di avere nel gridare, finalmente, in splendida solitudine, “Il re è nudo!”

  10. SERENA GANA scrive:

    Racconto bellissimo e avvincente. Considerazione completamente condivisibili.

    • Piero Laporta scrive:

      Grazie di cuore. Volevo tenerla per me; alla fine mi sono deciso perché, come puoi comprendere, non è una semplice commemorazione.

      • Brunello Caccamo scrive:

        Bellissimo racconto. Mio padre era maggiore a Forte Braschi sotto il generale de Lorenzo. ne era affascinato. Diceva che poteva fare con facilità 10 cose contemporaneamente. Era veramente capace. per questo fu infangato dai soliti. Avere dei genitori da ammirare e di cui essere orgogliosi è una vera fortuna.

  11. Nunzio Seminara scrive:

    Ho letto una Storia che è sempre la stessa, ahinoi!, stessa sceneggiatura, stessa regia, stesso produttore.
    Gli attori sono diversi, ma Eroi, loro, la cui umiltà e onestà li fa Grandi. Li fa Uomini.

  12. Pierpaolo Piras scrive:

    Bravo Piero, non smettere mai di pubblicare queste belle parole rivolte a un uomo buono, capace e onesto. Un esempio !!!

    • Piero Laporta scrive:

      Come ho detto a una amica, volevo tenerla per me; alla fine mi sono deciso perché, come puoi comprendere, non è una semplice commemorazione. Era un mdo di concepire il dovere che occorre riscoprire, a tutti i livelli.

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