Della nostra economia si ricomincia a dire “piccolo è bello”. Oggi “grande” è invece necessario. Il benessere dipende da quante merci l’organizzazione economica riesce a vendere, nel mercato interno e globale. Il resto è salmeria.
Produrre è importante, vendere lo è di più. Più merci si riuscirà a vendere, più ci sarà produzione, crescita, occupazione ed entrate fiscali per pagare servizi ai cittadini senza fare debito pubblico.
E’ da imbecilli e in malafede sostenere la necessità di investire nella crescita e nel lavoro senza chiarire che cosa e come “vendere” quanto si produrrebbe con più crescita e più lavoro.
E’ un dato di fatto che la quantità di merci che l’Italia riesce a vendere è ferma al 1990 (sia pure con piccoli saliscendi) quando eravamo 57 milioni di residenti.
E’ un dato di fatto che le merci vendute in questo ultimo quarto di secolo e quelle che vendiamo oggi sono insufficienti a mantenere tutti i 60-61 milioni che siamo diventati, per cui abbiamo più poveri, più disoccupati, insufficienti entrate fiscali per pagare i servizi, di conseguenza abbiamo aumentato il debito pubblico.
E’ un dato di fatto che, se non avessimo favorito un’immigrazione inutile e fuori misura, la popolazione residente sarebbe inferiore al 1990. Lo squilibrio tra dimensione dell’economia e popolazione sarebbe quindi meno drammatica.
E’ un dato di fatto che le cause della nostra stagnazione sono le politiche recessive degli anni ’90 per portare il cambio con l’euro a quasi 2.000 lire. L’euro, una moneta troppo forte, ha ridotto la nostra competitività,
E’ un dato di fatto che i nostri imprenditori si sono adattati alla situazione ed hanno smesso di investire (l’imprenditoria italiana è la meno indebitata d’Europa) se non l’indispensabile. Non si è investito neppure in tecnologia produttiva. Si è invece imposto occupazione flessibile, riduzione del costo del lavoro, dumping salariale con l’immigrazione, i cui costi sociali sono pagati dalla gente comune.
Oggi l’imprenditoria italiana macina profitti che investe nella finanza e, quando trova l’occasione, cede l’attività a proprietà straniere.
Il risparmio “finanziario” delle famiglie italiane (circa 4.500 miliardi, record europeo) è quasi il doppio del debito pubblico, ma di questo risparmio, sottratto allo sviluppo economico, solo 150 milioni sono investiti nel debito pubblico e poco più in prodotti finanziari a sostegno della nostra economia, il resto è liquidità e prodotti finanziari internazionali.
I capitali per far girare di più la nostra economia ci sono, ma i “piccoli capitalisti” italiani li investono a far girare l’economia degli altri.
Un cul de sac, una strada senza uscita? Parrebbe di sì.
Quanti sostengono che oggi dobbiamo fare le cose in grande, spesso lo fanno per sostenere la necessità di vendere alle multinazionali. Queste si prendono il marchio, il know how, i dirigenti migliori e scappano. Noi restiamo sempre di più in braghe di tela.
Non possiamo però mettere forzosamente i “piccoli capitalisti” italiani a testa in giù per cavargli il denaro dalle tasche.
Se il privato non fa il suo mestiere di capitalista, magari perché troppo piccolo, occorre l’intervento del capitalismo di stato, occorre un nuovo IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) riveduto e corretto che venda il Made in Italy e, quando necessario, lo produca, ne acquisisca i produttori o partecipi al loro sviluppo, reperendo i capitali sul mercato finanziario, sia interno sia globale, basandosi su una conglomerata suddivisa in varie filiere con a capo una holding finanziaria globale. Lo strumento esiste già, è la Cassa Depositi e Prestiti. opportunamente riformata con a capo un vero grande manager internazionale come fu Sergio Marchionne e oggi potrebbe essere Urbano Cairo.
Se non si vuole continuare a giocare con gli zero-virgola, non c’è altra via d’uscita.