In via D’Amelio il telecomando era nel citofono del palazzo dove abitava la madre di Paolo Borsellino, secondo Totò Riina.
Se fosse vero, confermerebbe che la protezione intorno al giudice faceva acqua, considerato che le visite del magistrato alla madre erano note e frequenti, quindi la sorveglianza sarebbe dovuta essere adeguata. Se fosse falso, significa che il caro boss sta facendo velo intorno a qualcuno o qualcosa, connesso col fatto che il telecomando dovette essere necessariamente nelle vicinanze dell’auto che poi scoppiò. Spiegheremo più avanti perché.
Visto che la rivelazione del caro boss rimane a mezz’acqua fra vero e falso, senza una conferma o una smentita attendibile da parte degli addetti ai lavori, si ha una ulteriore conferma che le indagini furono condotte coi piedi e tutta la confusione seguitane, prima ancora che di complotti, è frutto di stupidità.
La stampa italiana al solito è di scarsa memoria, dimenticando che nell’estate del 2009 un Gioacchino Genchi si diceva certo che il telecomando di via D’Amelio fosse sul monte Pellegrino, in prossimità del Castello Utveggio. Non è dato sapere quali fossero le competenze tecniche in esplosivi del Genchi, semmai esperto collezionista di tabulati telefonici. Sta di fatto che gli stessi gazzettieri, oggi echeggianti acriticamente la rivelazione del caro boss, s’estasiarono per la congettura di Genchi, la cui attendibilità ci parve – e lo scrivemmo – alquanto aleatoria, ricevendo più d’una contumelia da taluni ignoti sostenitori della tesi del collezionista.
L’esplosivo è molto meno efficace di quanto si possa congetturare se lo scopo è quello di uccidere in maniera mirata una determinata persona. I professionisti di queste scelleratezze lo sanno molto bene. Per esempio, quando Enzo Casillo, fedelissimo di Raffaele Cutolo, fu dilaniato da un’autobomba il 29 gennaio 1983, quattro sicari erano pronti a intervenire se la bomba non avesse raggiunto appieno il suo duplice scopo: essere clamorosamente evidente e, allo stesso tempo, mortalmente efficace. Il dato di fatto da tenere in massima evidenza, è che i professionisti del crimine non lasciano nulla al caso né all’improvvisazione. Gli attentatori conoscevano l’ora esatta in cui il giudice si sarebbe recato a visitare la madre. Presidiarono indisturbati la zona e i possibili itinerari sin dalle prime ore del mattino. Dopo di che il convoglio delle auto del magistrato fu seguito passo dopo passo.
I grandi criminali sono perfezionisti. Essi vogliono essere certi che tutto avvenga senza intoppi. Per fare un esempio, se un ostacolo si fosse frapposto fra Borsellino e l’autobomba nel momento dello scoppio, la probabilità di sopravvivenza del giudice sarebbe salita alquanto. Se invece qualcuno fosse transitato con qualcosa di volume rilevante, per esempio trasportando un mobile, Borsellino sarebbe rimasto a raccontarla, malconcio ma vivo. Ecco perché Borsellino viene seguito fino alla soglia della morte. Questa è la ragione logica per la quale l’ammiraglio Roberto Vassale, ottimo perito del tribunale, ipotizzò che il telecomando fosse azionato da uno degli edifici incombenti su via D’Amelio.
L’ipotesi del telecomando sul castello Utveggio, sulle pendici del monte Pellegrino, fu doppiamente errata perché illogica e perché tecnicamente insostenibile.
La distanza in linea d’aria dal punto più prossimo del castello Utveggio al civico 21 di via D’Amelio è di 950 metri, cioè una lunghezza pari a dieci campi di calcio e superiore alla distanza fra la cupola di san Pietro e la sponda del Tevere. In altre parole, da quella distanza non si distingue nulla. Si può tuttavia utilizzare un cannocchiale con ottiche potentissime, le quali però restringono il campo visivo. Da questo consegue il rischio di lanciare il segnale in un momento sbagliato, quando qualcosa sta accadendo al di fuori del campo visivo. Se quindi ammettiamo che il segnale assassino sia partito dal castello Utveggio, allora dobbiamo ammettere che coloro i quali hanno seguito Borsellino, appostatisi in prossimità di via D’Amelio abbiano dato il via collegandosi con l’uomo sul castello Utveggio. Assurdo: tanto valeva premere il pulsante, com’è certamente stato, nei dintorni di via D’Amelio. Veniamo all’errore tecnico. Non è affatto vero, come si disse nel 2009, che da castello Utveggio si abbia la perfetta dominanza della scena del crimine. Si vede via D’amelio, questo sì, ma la Fiat 126 sarebbe stata separata dall’osservatore sul castello da costruzioni, alberi e imprevedibili persone in transito.
Il telecomando descritto dall’ottimo perito Vassale era analogo a quello d’un cancello condominiale, cioè inadeguato a sparare il segnale da 900 metri e con quegli ostacoli, non operante nella banda di alta frequenza tale da «perforare» gli ostacoli, come accade al segnale dei telefonini, per capirci. Chi obietti a questa affermazione, faccia un esperimento: spari il segnale dal castello Utveggio con un telecomando simile a quello dell’attentato e il ricevitore in via D’Amelio 21, in una Fiat 126. Così avrebbe fatto Galileo Galilei, del quale non dobbiamo ricordarci solo quando vogliamo sfottere i cattolici.
Torniamo alle ultime rivelazioni del caro boss. Una osservazione preme. “Telecomando nel citofono” ha un solo significato: schiacciando il tasto che squillava in casa della madre del giudice, partiva il segnale radio verso l’antenna sulla vicina autobomba. Evento tecnicamente plausibile, ma incongruo con lo scenario: quel tasto infatti poteva essere schiacciato da chiunque prima che il giudice arrivasse; l’esito sarebbe stato altrettanto tragico ma inutile per i criminali. Per scongiurare questo fatto casuale il circuito avrebbe necessariamente dovuto avere una doppia sicurezza. In altre parole, un telecomando a distanza avrebbe dovuto chiudere il circuito nel citofono solo nel momento in cui Borsellino si accingeva a citofonare alla madre. Questo avrebbe richiesto competenze tecniche e prove di collaudo di gran punga più raffinate e complicate di quelle necessarie per lo scoppio dell’autobomba col telecomando in mano a un sicario nelle vicinanze.
Non di meno l’ipotesi piace, il caro boss la dà a intendere e i gazzettieri si prestano volentieri a echeggiarne nuovamente i vaticini. Noi più che altro siamo impressionati dal fatto che questo telecomando citofonico accompagna e tuttavia oscura la notizia che l’attentato a Borsellino fu annunciato due ore prima da un anonimo al centralino della polizia e nessuno se ne curò. L’anonimo è rimasto tale e il nastro della telefonata è sparito. La casa della madre del giudice era sorvegliata, dai mafiosi e per anni s’è disquisito di castel Utveggio e altra fuffa. Correva il 1992, ventiquattro anni fa. I gazzettieri telecomandati si interrogano sul telecomando.
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Punto uno: Totò non può non sapere di essere intercettato anche al cesso!
Punto due: si diverte a prenderli per il c …!
Fine della storia.
I pennivendoli si dedichino ad altro invece di fare da cassa di risonanza alle cazzate di chi deve pur ingannare il tempo in qualche modo.
Come si può pensare che – quel giorno – se prima di Borsellino avessero consegnato una raccomandata, i cattivi avrebbero rischiato di far saltare in aria il postino!?
Si può pensare che si assumessero il rischio del postino, ma il sistema sarebbe stato così sofisticato da escludere che quella combriccola di ignoranti scassapagliai potesse realizzarlo. Lo ripeto, la cosa più importante è quella telefonata alla questura due ore prima, un’eternità, di cui si accorgono dopo venti anni. Vogliamo fare qualche domandina ai magistrati e superpoliziotti allora inquirenti?
Sono assolutamente d’accordo con lei, Laporta. Purtoppo in questa vicenda si è sempre proceduto partendo dal portone di uscita, anzichè dall’ingresso principale. Siccome per alcuni qualsiasi elemento indiziario può essere vero solo se dimostra l’intervento esecutivo di elementi istituzionali, allora se si ipotizza che il telecomando era all’Utveggio, ebbene era certamente all’Utveggio, perchè l’ c’erano i servizi. poi contrordine: il telecomando era nel citofono, fatto che imponeva l’uso di un sofisticato doppio dispositivo elettronico di consenso al segnale radio, e allora benissimo, così è plausibile perchè comporta la necessità di intervento da parte di esperti esterni, roba da genio militare, quindi è plausibile. Questo è il modo di ragionare, ad esempio, di un famoso “parente” del giudice, che poi, manco a dirlo, passa con disinvoltura dal sostenere per anni la tesi del telecomando all’Utveggio a quella del telecomando del citofono, come niente fosse, o come se fossimo in un gioco da tavolo dove si può liberamente cambiare la trama pescando una carta. Ad ogni modo qui il problema centrale è uno, e bisognerà affrontarlo: lo stesso Riina che afferma nelle microspie del carcere che il telecomando era nel citofono del civico 21, afferma nello stesso periodo, nelle stesse microspie, e con lo stesso tono, fra l’altro, che di papello lui non ha mai parlato e che quella sarebbe un’invenzione di Brusca. E allora, come la mettiamo? E’ credibile? Bene, se è credibile allora crediamo nel telecomando nel citofono, ma anche nella circostanza del papello come frutto della fantasia di Brusca, che come elemento già da solo basterebbe per mettere la parola fine sul processo in corso a Palermo sulla trattativa. Diversamente, bisogna dare una spiegazione logica e razionale alla ragione per cui si dovrebbe credere ad una cosa, e invece all’altra no.
E’ necessaria una spiegazione logica e razionale, lei dice? Difficile negare che non siano mai state di casa da quelle parti.