La famiglia, bene comune (2)

bebèUn contributo di “Oscar”, illustre laico, attrezzato realista, com’è raro nel dibattito corrente.

di OSCAR

All’interno di una comunità, di uno Stato, ciò che è lecito e ciò che non lo è, da sempre riguarda le convenzioni stabilite, la “contrattualistica sociale”. Sono le norme che individuano le fattispecie da condannare e – così facendo – creano la devianza. Come quando si depenalizza il falso in bilancio o l’UE decide se si può o non si può bere l’acqua con l’arsenico a seconda delle quantità che la Commissione ritiene possano essere tollerate dalla gente in un particolare momento, salvo –ovviamente – rivederle in seguito per corrispondere a nuove esigenze che non sempre hanno a che fare con la salute tout-court. La stessa cosa accade con le emissioni in atmosfera e via dicendo.

In queste cose il giudizio etico/morale/religioso funge da contorno, da innesco perché gruppi di pressione spingano, avendo come fine il concretizzarsi giuridico della norma, per poi sostenerla e darle corpo solo fino alla prossima revisione ad opera di qualche nuova lobby più forte di quella precedente.

Adoperando lo stesso schema logico e con un esempio riferito al vasto e variegato mondo dei “gusti” sessuali, potremmo parimenti affermare che se l’Organo di governo di un ipotetico Stato stabilisca, mediante l’emanazione di un’apposita norma, che il coprofilo commette reato nell’esercizio del suo “svago” (evidentemente inviso alla lobby dominante, che pensa di riceverne nocumento), il soggetto in questione si troverebbe inevitabilmente ad infrangere la legge e a patire la pena conseguentemente prevista per detto esecrabile comportamento. Mentre i pedofili – per lo stesso meccanismo e nello stesso ipotetico Stato – potrebbero guadagnare chissà quali benemerenze se nessuno ritiene che “il turpe vizietto” debba essere severamente sanzionato.

Tutto ciò è paradossale? Certamente! Ma la storia è piena di tali paradossi. Le mie osservazioni rappresentano solo lo sforzo atto a  fornire un punto di vista diverso, neutrale e “laico” al problema.

Voglio inoltre precisare che l’allusione a “etoressualità = media dei comportamenti sessuali” rimane una mia provocazione, tesa a prescindere dai soliti riferimenti a supposte patologie psichiatriche, ovvero a comportamenti da ritenersi assolutamente normali. Fra queste due posizioni estreme esistono tante combinazioni che possono sicuramente risultare vere.

Ai tempi di Freud visse anche Harvelock Ellis. Alcuni studiosi ritengono che Ellis fu per la teoria sessuale moderna ciò che Einstein fu per la fisica: per Ellis, infatti, l’omosessualità poteva essere considerata come una semplice variazione statistica. Un’idea del tutto scandalosa all’epoca. Freud, molto più semplicemente, la classificava invece tra le perversioni.

Ellis considerava la masturbazione un innocuo trastullo, mentre Freud riteneva che si trattasse di una pericolosa malattia (per approfondimenti consiglio di leggere “Il libro nero della psicoanalisi” curato da C. Mayer – Fazi Editore 2006). E così veniamo all’aspetto psicopatologico della questione.

Il DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), che nella prima edizione includeva l’omosessualità fra i “disturbi sociopatici di personalità”, nella II° edizione del 1968 la classificava come “deviazione sessuale” insieme a pedofilia, necrofilia, feticismo e transessualismo. Nel 1974, infine, fu eliminato il riferimento alla deviazione sessuale, ma non completamente, malgrado le pressioni dei gruppi omofili. La versione attuale del DSM (“La bibbia” della American Psychiatric Association, DSM-IV-TR, 2000) mantiene l’omosessualità tra i Disturbi Sessuali NAS, quando si diagnostica un “persistente e intenso disagio collegato al proprio orientamento sessuale” .

Indiscrezioni dicono che la quinta versione, ancora in bozza, sembra mantenere quest’ultima impostazione. A maggio leggeremo la pubblicazione definitiva del testo.

Nella versione del 2007 dell’ICD (International Classification of Deseases), stilato dall’OMS, le patologie correlate all’orientamento sessuale sono incluse nella categoria “Disorders of adult personality and behaviour”, nella sottocategoria “Psychological and behavioural disorders associated with sexual development and orientation”. All’interno, si trovava citata l’omosessualità ego-distonica.

Dopo la avvenuta cancellazione dell’omosessualità ego-distonica dalla lista dell’OMS, la posizione ufficiale del mondo scientifico, sia negli USA, sia negli altri Paesi occidentali, sembra essere che l’omosessualità di per sé costituisce “una variante naturale del comportamento sessuale umano”.

Se è una “variante” ,  si vuole forse dire che esiste un comportamento sessuale umano da doversi ritenere peculiare, specifico, maggioritario? Dunque, una variante fra tante altre? Questa domanda ne impone un’altra: quali sono le altre varianti nel cui novero si inserisce l’omosessualità? Solo rispondendo a questa domanda in modo conseguente si comprende che cosa significhi “variante”. Quanto più un tema è sfuggente tanto più rigoroso deve essere il linguaggio col quale lo si esamina.

Non sono uno psichiatra. Il mio è puro interesse culturale, con tutti i limiti che questo comporta. Devo tuttavia precisare che il mio intervento è inteso a suggerire un approccio “laico”, “neutrale”, “utilitaristico” al problema, perché diversamente avremmo dovuto continuare a dissertare della questione con l’ausilio dei soliti schemi psicologici, sociologici, religiosi, etico/viscerali e chi più ne ha più ne metta.

Sono convinto che la materia patisca faziosità, futilità e persino l’inutilità di talune trattazioni. Un modo di procedere, sinora, che spesso fa velo agli aspetti più contigui al potere che all’interesse comune (penso p.e. a certo trasversalismo del potere omosessuale, a proposito del quale non s’è mai detto a sufficienza).

Non è possibile quindi, con tutti i problemi che oggi ci affliggono, nel mondo e nel paese, che noi si perda tempo a discutere se chi fa l’amore con uno dello stesso sesso abbia diritto a vedersi riconosciuto questo status nel codice civile. E con questo limito il problema agli omosessuali, non intendo affrontare il problema delle convivenze in generale.

Per me va benissimo che mai nessuno venga discriminato a causa della propria omosessualità. Questo mai! Ma non per questo i suoi diritti si debbono espandere a “danno” di altri. Ho detto a “danno” di altri e più avanti cercherò di spiegare cosa intendo dire.

Il matrimonio civile (non quello religioso che è sacramento) nasce da altri presupposti, fra i quali la convivenza è solo uno e nemmeno quello più importante. Il vero fondamento è costituito da un puro aspetto organizzativo delle società civili: due individui si replicano, si dividono ulteriormente come fossero due cellule, generano individui che vanno collocati in un contesto sociale di diritti e doveri. Questa è una visione laica del matrimonio, non derogabile. Le preferenze sessuali non c’entrano per nulla. E neanche quelle affettive. Pensate a quanti coniugi si odiano cordialmente.

Non intendo parlare delle adozioni da parte di coppie omosessuali, proprio perché c’è già chi le tira in ballo come logica conseguenza del riconoscimento civile della convivenza fra omosessuali, in parità di fronte alla legge col matrimonio fra uomo e donna.

In proposito, osservo soltanto che sul piano esistenziale sarebbe una vera mostruosità. Non solo la nascita è di per sé un evento subìto dal nascituro, ma taluni vorrebbero imporre a un bambino anche lo sviluppo della sua esistenza fra due padri o fra due madri, come fosse tutto assolutamente naturale. Non è naturale. Non è giusto. E’ contro i nostri cromosomi.

Su questo tema non credo sia necessario assumere posizioni viscerali, sfocianti in discussioni aggrovigliate che la politica non sa gestire. Dobbiamo anche evitare che il campo della discussione si allarghi a tal punto da farci dimenticare i problemi veri: la vita o la morte, la dignità e l’umiliazione delle persone.

Occorre dunque aprire la riflessione ponendoci qualche domanda: che cosa vogliamo salvaguardare? Cosa è importante salvaguardare? Quali sono i valori fondanti e comuni a tutti i membri di una società che è necessario trasfondere in un corpo di leggi?

E poi, ancora: è giusto travalicare taluni valori, patrimonio della maggioranza degli appartenenti ad una comunità, per soccorrere ai presunti bisogni di un minoranza?

E se la risposta a quest’ultimo interrogativo fosse positiva, non dovremmo forse dedurne che ogni “varianza” all’umano comportamento, in qualunque campo, debba trovare traduzione in riconoscimenti giuridici e assurgere a dignità normativa? E come possiamo evitare che ciò divenga un fattore dirompente e disgregante della stessa società di cui si intende innalzare il grado di tolleranza e democrazia?

Già, la tolleranza, la democrazia! La tolleranza è una nobile virtù, un grande e civile sentimento, ma non può essere unidirezionale; bisogna che venga contemperato da un altro principio: la reciprocità. E’ una virtù dura da esercitare senza riscontri. Una questione del genere si è posta nel nostro paese con l’arrivo di migranti da territori notoriamente dediti all’intolleranza religiosa.

La democrazia, invece, attiene alle diverse forme di governo. Quante forme di democrazia esistono? Tantissime. Non lasciamoci ingannare dalla semplicistica definizione: governo del popolo. La democrazia è un concetto evanescente.

Pareto, nel suo Trattato di Sociologia, cercò di arricchire il dibattito con una spiegazione connotata da certi elementi di scientificità. Stringi, stringi il succo era: state in guardia quando andate a toccare gli equilibri delle singole utilità (ricordate? Lui le chiamava ofelimità) dei componenti di una società, non esiste nessun equilibrio fuori dall’equilibrio (un po’ tautologico…), rischiate di scontentare tutti, anche soltanto avvantaggiando di poco l’utilità di qualcuno contro l’interesse di qualcun altro.

Forse dovremo riflettere approfonditamente sul concetto stesso di democrazia, che non può essere quello di riconoscere tutto a tutti in barba all’interesse dei più.

Chi oggi, nel nostro Paese, se fosse correttamente posta la questione delle convivenze (“famiglie”) omosessuali; non nei termini: favorevole o contrario alla discriminazione sessuale? Non come: omofobo/razzista contro democratico/antirazzista, ma con una semplice domanda: ritenete indispensabile, necessario, urgente, utile disciplinare civilisticamente detto connubio sapendo che – inevitabilmente – andremmo ad aumentare la produzione normativa che, foriera di nuovi diritti per taluni, andrà a confliggere con interessi di altri?

Nel 2007 fu abortita sul nascere la istituzione dei DI.CO (diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi). Si dice che ad affossare la riforma furono Fassino e Salvi. Quest’ultimo propose, in seguito un sostanziosa modifica,  al posto dei DI.CO i CUS (Contratto di Unione Solidale).

Il primo era: tutti diritti e pochi doveri; il secondo cercava di circoscrivere la questione ad un accodo pattizio fra le parti.

È giusto che la libera scelta di una convivenza omosessuale debba necessariamente avere riflessi giuridici nei confronti dei terzi?

I DI.CO prevedevano il riconoscimento di taluni diritti e doveri a seconda della rispettiva durata della convivenza. Riflessi in materia di assegnazione di alloggi di edilizia pubblica, di tasse di successione, di contratti di locazione, di decisioni per la salute e disposizioni in caso morte, di successioni, di permessi di soggiorno, di agevolazioni in materia di lavoro e trattamento pensionistico. Questi erano i diritti dei DICO. I doveri? Assegni alimentari e assistenza reciproca. Come dire che i doveri sono tutti interni alla coppia, mentre i diritti si riverberano – con ogni evidenza – esclusivamente nei confronti dei terzi.

Ma è giusto che una famiglia “normale” si possa vedere scavalcata in una graduatoria per l’assegnazione di case popolari da una coppia DI.CO perché i titoli di accesso sono stati strutturati in un certo modo?

Questa non è solo un’ipotesi di scuola. Esempi di questo genere ne esistono a iosa nel nostro paese. Basta entrare con la minoranza e, dopo un po’, conti più della maggioranza.

L’Italia eroga pensioni agli anziani familiari (oltre 65 anni) di migranti che, per ricongiungimento del nucleo familiare sono approdati da noi e, dopo aver maturato il diritto all’assegno sociale, se ne tornano all’avito villaggio di origine (qualora abbiano messo piede sull’italico suolo, il che non è detto) per vivere come nababbi con gli euro di mamma Italia.

Questo capolavoro di idiozia nasce dalla legge 388 del 2000, inserita nella Finanziaria 2001 del benemerito governo di Giuliano Amato.

Nel 2009, il governo di cen­trodestra ha rimaneggiato la legge – mica abolito – lasciando la possibilità di richiedere il ri­congiungimento ai residenti in Italia da almeno dieci anni.

Al di là del­l’opportunità di una norma che talvolta con­sente vere e proprie truffe (i ricongiungimenti fittizi) ai danni dell’INPS che eroga i quattrini del­la nostra previdenza a chi non ha mai versato contributi nel no­stro Paese, il problema sta nell’incertezza che oggi hanno i nostri figli di poter contare su una futura pensione, sta nella tragedia degli “esodati”.

Provate a chiedere voi un assegno di accompagnamento per un parente disabile e gravemente malato e vi accorgerete che se il poveretto non ha più che un piede nella fossa “nisba euri”.

E le successioni? Ve lo immaginate il contenzioso che si scatenerebbe fra gli aventi diritto su base DI.CO e gli altri eredi del de cuius?

Per accampar pretese circa i  diritti sopra elencati sarebbe sufficiente una semplice dichiarazione di convivenza, redatta in forma di atto notorio e registrata in Comune.

Capite adesso perché prima parlavo di invasione della sfera giuridica, di incidenza sui diritti degli altri cittadini, di diritti dilatati a “danno” degli altri membri della comunità?

Bene! Adesso, vittima della mia stessa logica, credo di dover fare ammenda per aver alimentato un dibattito privo di rilevanza (… almeno dal mio punto di vista).

[la prima puntata di questa inchiesta si può leggere qui]

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Informazioni su Piero Laporta

Dal 1994, osservate le ambiguità del giornalismo italiano (nel frattempo degenerate) Piero Laporta s’è immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come d'altronde sarebbe stato naturale considerando il lavoro svolto a quel tempo, (Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa). Ha collaborato con numerosi giornali e riviste, italiani e non (Libero, Il Tempo, Il Giornale, Limes, World Security Network, ItaliaOggi, Corriere delle Comunicazioni, Arbiter, Il Mondo e La Verità). Ha scritto “in Salita, vita di un imprenditore meridionale” ed è coautore di “Mass Media e Fango” con Vincenzo Mastronardi, ed. Leonardo 2015. (leggi qui: goo.gl/CBNYKg). Il libro "Raffiche di Bugie a Via Fani, Stato e BR Sparano su Moro" ed. Amazon 2023 https://shorturl.at/ciK07 è l'inchiesta più approfondita e documentata sinora pubblicata sui fatti del 16 Marzo 1978. Oggi, definitivamente disgustato della codardia e della faziosità disinformante di tv e carta stampata, ha deciso di collaborare solo con Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti. D'altronde il suo più spiccato interesse era e resta la comunicazione sul web, cioè il presente e il futuro della libertà di espressione. Ha fondato il sito https://pierolaporta.it per il blog OltreLaNotizia. Lingue conosciute: dialetto di Latiano (BR) quasi dimenticato,, scarsa conoscenza del dialetto di Putignano (BA), buona conoscenza del palermitano, ottima conoscenza del vernacolo di San Giovanni Rotondo, inglese e un po' di italiano. È cattolico; non apprezza Bergoglio e neppure quanti lo odiano, sposatissimo, ha due figli.
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2 risposte a La famiglia, bene comune (2)

  1. Pingback: Inganni Omo-logati - di D.Nerozzi - Piero Laporta Blog

  2. Elio Paoloni scrive:

    Arrendetevi, siete circondati. Non è Beppe Grillo, sono i propugnatori di leggi sulle unioni anomale: se il costume si impone va fatta la legge. Ma il costume, come essi insegnano, cambia, evolve. Rifluisce, aggiungo. Quanti ‘traguardi’, nel corso dei secoli, si sono rivelati fallimentari? Quante sedimentate costumanze, quante parole d’ordine sono state abbandonate? Il problema è che le leggi sopravvivono a lungo all’entusiasmo che le aveva prodotte. Cancellarle è più difficile che farle. I guasti di una legge sono molto più gravi e prolungati di quelli provocati dal costume, da un andazzo che può essere passeggero.
    Perché io, che quel costume aborro, che quegli usi combatto, dovrei accettare che vengano codificati? Un assediato potrà sperare che gli assedianti perdano energie, entusiasmo, rifornimenti?

    Una considerazione sulle ‘normali’ unioni civili. Molti avversari delle unioni omo si mostrano disinteressati o arrendevoli rispetto all’eventualità di ulteriori ‘registri’ per le convivenze civili eterosessuali . E’ del tutto evidente che si tratta di un grimaldello per scardinare il matrimonio che conosciamo e già questo dovrebbe indurre a una decisa opposizione. Ma ammettiamo che non lo sia, mi si vuol spiegare perché mai dovremmo accettare un aggravio di spese (un altro ‘registro’ vuol dire carte, impiegati, burocrazia, incroci di dati) e una complicazione della normativa per un inutile doppione del matrimonio civile? Insomma, si dovranno, come si dice da noi a Firenze, “cacciare carte”? Tanto vale, allora, tirar fuori questi documenti per un matrimonio civile, se si intende accampare diritti. Se no convivano pure nell’ombra, nascosti alla municipalità come alla comunità.

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