Articolo pubblicato il 18 gennaio, oggi appare profetico. Mario Draghi ci porta verso gli Stati Uniti d’Europa a vantaggio delle banche.
Mario Draghi, Governatore della Banca Centrale Europea, ha ritenuto recentemente di dover esternare, come il Premier o il Presidente della Repubblica, a fine o inizio d’anno.[cryout-pullquote align=”right” textalign=”justify” width=”40%”]* Oscar è alto funzionario, esperto d’economia[/cryout-pullquote]Secondo Draghi, oggi i tempi sono maturi perché l’UE abbandoni il sistema delle Regole comuni e si doti immantinente di “Istituzioni comuni”, dando contestualmente luogo a revisione dei trattati per prevedere espressamente “cooperazioni rafforzate”[1]. Draghi non ha ulteriormente chiarito quanto affermato, per cui svilupperemo le osservazioni che seguono alla luce di altri suoi comportamenti da porre in relazione con l’attuale quadro politico ed economico. D’emblée, quanto riportato dagli articolisti italiani e tedeschi non appare molto rassicurante, soprattutto se posto in relazione con quanto contestualmente confermato dalla Commissione europea il 5 gennaio 2015 – vigilia di Epifania – circa eventuali situazioni che dovessero vedere la vittoria di Tsipras alle prossime elezioni, con la conseguente messa in forse della permanenza della Grecia nell’euro. Il riferimento della Commissione Ue è al Trattato dell’Unione europea. Secondo la Commissione, per uscire dall’euro sarebbe prima necessaria una modifica del Trattato stesso, la cui procedura prevede l’unanimità dei paesi membri, l’approvazione da parte del Parlamento europeo e le successive ratifiche, dove previsto, da parte dei parlamenti nazionali. Una bella calza ricolma di carbone per Tsipras? Ma certo che no! Si è inteso soltanto rappresentare all’opinione pubblica greca che la cosa è complessa e ciò nello stesso interesse di Tsipras che agita lo spauracchio sia per vincere le elezioni sia per “merkanteggiare” con Berlino. Tutti e due, infatti, sanno che le banche tedesche si sono disfatte da tempo dei titoli del debito greco; ormai i tedeschi sono fuori. Così alla Grecia non rimangono tanti argomenti di persuasione se non la possibilità di far leva sul timore della Commissione per un eventuale effetto domino nei confronti dell’opinione pubblica di altri paesi membri dell’UE, che rimane comunque assai improbabile. In seguito – se tutto dovesse andare per il meglio – il premier greco potrà sempre rinegoziare le condizioni del debito, ottenere sconti e sforamenti. [cryout-pullquote align=”left” textalign=”justify” width=”20″]Uscire dalla ‘Zona Euro’? Secondo la Commissione occorrono: 1) unanimità dei paesi membri per emendare il Trattato; 2) approvazione del Parlamento europeo; 3) ratifica dei parlamenti nazionali.[/cryout-pullquote]Delusi quanti già si vedevano con le nuove dracme in tasca.
Dunque, l’UE, unitamente al governo di Berlino per voce di Draghi, ci chiarisce che dall’euro non si scappa! Con buona pace per eventuali, future scelte popolari e per la c.d. Sovranità nazionale, che vanno a farsi benedire.
Se le cose stanno così, siamo allora autorizzati ad ipotizzare che per uno Stato dell’Unione. che dovesse deliberatamente non ottemperare alle draconiane prescrizioni della Commissione, o delle varie Ttroike, sapendo che dall’euro non si scappa, si prospetta il commissariamento (come qualcuno ha pure paventato) o l’invasione modello IS?
Peraltro, di Eurobond e di politiche di QE se ne chiacchiera tanto, e da tanto tempo, ma nulla è stato ancora fatto, nonostante gli acquisti di obbligazioni governative, promessi dalla BCE con il programma OMT (Outright monetary transactions) – “in linea di principio” – rispettano i trattati europei. Così, nel parere consultivo dell’avvocato generale della Corte di giustizia europea alla quale si è fatto ricorso dopo il parere negativo della Corte costituzionale tedesca.
La decisione definitiva (talune notizie sono state date come se fosse già intervenuta la decisione) della Corte è attesa nel giro di pochi mesi per un piano Omt lanciato nell’ormai lontano agosto del 2012, dopo la celebre frase di Mario Draghi circa il fare “tutto quello che è necessario” per salvare l’euro. Dopo il lancio, l’Omt non è mai stato effettivamente attuato.
Intanto l’Area Euro è in deflazione e i fondamentali della nostra economia evidenziano oggi tutta l’incontrovertibile tragicità della crisi in atto, senza vedere un concreto spiraglio di luce che faccia ipotizzare una svolta.
Draghi conosce benissimo la situazione. Nei cassetti dei suoi Uffici Studi giacciono analisi economiche che collocano i segnali di crescita oltre l’orizzonte temporale dei tre anni. E nel frattempo? Nel frattempo – come si vedrà più avanti – il Governo si spertica in esercizi di divinazione sul Pil in prossima, costante ascesa.
Prima però dobbiamo ricordare, per memoria di tutti, che la Banca centrale europea ha – tra l’altro – due compiti principali: preservare stabilmente il valore dell’euro e mantenere l’inflazione su un livello appena inferiore al 2%. Quanto dovremo ancora aspettare perché la BCE si attivi e faccia il suo dovere nell’interesse di tutti i paesi membri e non solo della Germania? Già, perché la questione è proprio questa: mentre aspettiamo che Bundesbank stemperi il suo ossessivo timore per una incontrollabile ripresa dell’inflazione nell’area euro, le politiche di QE poste in essere da USA e Gran Bretagna hanno già consentito a queste due nazioni di uscire dalla crisi. O forse il problema è un altro? Insomma, quali politiche di QE per l’area Euro?
Politiche di quantitative easing (QE) per l’Euro?
Facile dire “quantitative easing“, ma non è per nulla scontato come sarà realizzato e con quali conseguenze per l’economia. Infatti, come sanno gli studenti del primo anno di economia, immettere liquidità nel sistema non è tout-court produttivo di sviluppo se non si ha riguardo alle modalità con le quali essa viene immessa in circolo, ai soggetti verso i quali viene indirizzato il flusso di denaro ed a come esso viene impiegato.
[cryout-pullquote align=”right” textalign=”justify” width=”33%”]Come mai, col barile a 48USD (contestuale all’apprezzamento del Dollaro sull’Euro), il costo dell’energia è calato di percentuali omeopatiche?[/cryout-pullquote]L’aumento della quantità di moneta, qualora non strettamente controllato e collegato all’aumento della produzione, invece di stimolare l’economia può determinare l’aumento dei prezzi, senza benefici per la crescita della produzione, della domanda e del reddito. Orbene, se la Bce finisse per acquistare – come sembra in animo di voler fare – soltanto crediti di dubbia esigibilità in sofferenza presso le banche ma cartolarizzati e assistiti da garanzia dello Stato (quindi della collettività), molto probabilmente finirebbe per dare ragione al ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Scheuble perché l’acquisto di “carta straccia” risulterebbe del tutto improduttivo e funzionale solo all’ulteriore fase di risanamento del sistema bancario europeo ed Italiano in particolare.
Ci troveremmo di fronte a una riedizione, riveduta e corretta, dei “subprime”, che portarono al fallimento di Lehman Brothers. Draghi ha una certa esperienza di tali questioni.
Tuttavia, non è per niente scontato che la Germania instauri un braccio di ferro con la BCE perché sempre Draghi si affrettò a precisare, nell’aprile dello scorso anno, che un QE concentrato sui titoli di stato o su un mix di stato/ABS (Asset Backed Securities), comporterebbe per forza di cose anche un copioso acquisto di Bund, già a rendimenti reali infimi, con notevole contrarietà dei risparmiatori tedeschi e di quanti detengono tali titoli. La BCE sarebbe costretta ad acquistare titoli per un importo proporzionale alla percentuale di partecipazione degli stati nel capitale della stessa BCE.
Gli acquisti si concentrerebbero infatti su Germania (19% circa), Francia (14% circa) ed Italia (12.5%). Il che è un’ottima notizia per i titoli dei tre stati, ma come reagirebbe il mondo dei cambi in una situazione in cui il differenziale di rendimento tra i titoli Euro ed USA tendesse ad allargarsi ulteriormente senza che la FED ritenga di dover alzare i tassi? Le conseguenze le stiamo già vedendo. Il cross EURO/USD ha varcato la soglia 1,18 e la banca centrale svizzera ha portato il Franco a 1,10. E’ facile notare da tali interrelazioni che – per il momento – questa è una faccenda tutta di ordine finanziario con riflessi sull’economia reale, soprattutto in termini di aumento delle esportazioni dall’area europea verso il resto del mondo, ancora da verificare. Anche il calo del costo del petrolio evidenzia – per il momento – un sapore fortemente speculativo/politico. Come altrimenti considerare la circostanza che l’Europa si è dovuta schierare con gli Usa contro Putin, anche contro i propri interessi? E come mai, col barile a 48USD (contestuale all’apprezzamento del Dollaro sull’Euro), il costo dell’energia è calato solo di percentuali omeopatiche? Un crollo dei prezzi – si badi bene – mentre i paesi produttori OPEC hanno dichiarato la loro intenzione di non procedere a nessun taglio dell’offerta di greggio. Sembra normale? Certo è che tanti, nazioni e società, dovranno rivedere i budget in entrata da vendite Oil e tagliare ogni spesa connessa coi ricavi attesi, non più in linea con i prezzi oggi vigenti sul mercato.
Queste le politiche monetarie e finanziarie in atto e, questa, l’evoluzione dei cambi che ne consegue.
Crescita, occupazione, uscita dalla crisi?
Se sbirciassimo sempre nei manuali di economia politica del primo anno di università, potremmo apprendere che, va bene immette denaro nel circuito economico, ma bisogna spenderlo (in investimenti e trasferimenti a sostegno dei consumi) per poter registrare un qualche fenomeno di aumento del reddito e dell’occupazione.
[cryout-pullquote align=”left” textalign=”justify” width=”33%”]La ricchezza d’una nazione si basa sul capitale disponibile, unito alla manodopera giovane e professionalizzata inseribile nel circuito produttivo. Negli ultimi sette anni l’Italia ha letteralmente sperperato il proprio fattore più importante per lo sviluppo. [/cryout-pullquote]In buona sostanza, rimpinguare e stabilizzare gli attivi bancari serve solo alle banche per cercare di reggere il confronto con i parametri di Basilea 3 e superare gli stress test che ultimamente stanno evidenziando la scarsa capitalizzazione del sistema bancario. Non ci sarà espansione del credito, come non c’è stato finora, e non si registrerà alcun calo del costo del denaro. Si tratta di trasferimenti monetari senza sbocco negli impieghi – né per investimenti, né per sostenere la domanda di consumi delle famiglie – e intanto “il cavallo continuerà a non bere e a morire di sete”.
In tale situazione, anche il risparmio privato finisce per uscire dal circuito della produzione.
Quest’insieme di circostanze permangono nel nostro sistema economico e ne impediscono la crescita e questo perché – contestualmente – le imprese non procedono a nuovi investimenti, preferendo ricavare utili dal contenimento del costo del lavoro che gli operai sono disposti ad accettare sulla propria pelle, temendo le conseguenze della continua contrazione della base produttiva e della disoccupazione in costante ascesa. La ricchezza di una nazione si basa sullo stock di capitale a disposizione, unito allo stock di manodopera giovane e professionalizzata da inserire nel circuito produttivo. Negli ultimi sette anni l’Italia ha letteralmente sperperato il proprio fattore più importante per lo sviluppo. La forza lavoro giovanile professionalizzata e scolarizzata. Con la disoccupazione al 13% e quella giovanile sopra al 44% i media di stato hanno profuso ottimismo a piene mani sostenendo che è registrabile una inversione di tendenza nella forza lavoro poiché, quanti non cercavano attivamente lavoro perché scoraggiati dalla crisi, hanno adesso deciso di mettersi alla ricerca di una occupazione incoraggiati dai segnali di ripresa (sic!). Per gli addetti ai lavori, il primo caso si definisce come DWH (Discouraged Worker Hypothesis); l’inversione di comportamento registrata andrebbe, invece, catalogata correttamente come dwh (desperate worker hypotesis), perché la discesa in campo per cercare attivamente lavoro è oggi determinata per larga parte dalla fame e dalla disperazione, non da segnali di crescita presenti solo nella fantasia di chi vende chiacchiere per vivere.
Sullo sfondo delle inerzie nazionali ed europee, il Piano Juncker per gli investimenti nell’eurozona sembra già essere tramontato prima ancora di nascere, svelando la sua vera natura di “eurobufala”.
Col doppio obiettivo di illustrare il piano di investimenti da 315 miliardi di euro messo a punto da Bruxelles e di cercare investitori disposti a mettere quattrini nel Fondo, il vice presidente della Commissione europea Jirki Katainen sta girando l’Europa con la solerzia di un venditore porta a porta. Sul pacchetto Juncker, come viene solitamente chiamato, permangono forti perplessità per cui Roma non ha ancora deciso la sua partecipazione.
Le uniche risorse vere, disponibili e spendibili, le ha individuate il FMI che, con fare paternalistico, indica la necessità che la Germania investa il suo surplus di parte corrente per stimolare la domanda interna e la crescita – più in generale dell’Eurozona.
A grandi linee, così stanno le cose. Com’è possibile far finta che tutto sta andando per il meglio, che si è imboccata la strada giusta? Il riferimento è al trionfalismo renziano in occasione della chiusura del semestre europeo e alle esternazioni di Renzi/Padoan: “… adesso si svolta tocca correre”. Quale svolta, correre dove? Le previsioni di crescita del Pil per il 2015 erano state fissate al + 1,35, adesso immediatamente ribassate ad un ridicolo + 0,3%. Chi vivrà vedrà!
Verso gli Stati Uniti d’Europa?
Queste contraddizioni emergono ogni giorno di più dalla sgangherata operazione di integrazione europea pilotata da Berlino. Per fare un’Europa unita e funzionante occorre fare il salto da UE a SUE (Stati Uniti d’Europa): imposizione fiscale uguale in tutti gli Stati membri, Bilancio Federale, sistema di difesa unitario, gestione centralizzata e unitaria dei debiti sovrani, BCE modello FED e altro ancora, fino ad arrivare ai programmi di investimenti per le infrastrutture, alla scuola e alla sanità. Soltanto un modello federale fondato su questi presupposti potrà assicurare un benessere diffuso e paritario all’interno degli stati aderenti. Dobbiamo forse ritenere che quella attuale non sia altro che una fase transitoria che in seguito sfocerà negli Stati Uniti d’Europa? Che ciò sarà reso possibile solo quando saranno date sufficienti garanzie in ordine alla neutralizzazione preventiva di eventuali turbolenze economiche che dovessero ripercuotersi negativamente verso gli altri paesi OCSE?
[cryout-pullquote align=”right” textalign=”left|center|right” width=”33%”]Unico collante che sembra tenere insieme questa Europa unita/disunita sembra sia una sorta di pangermanesimo, assai gradito oltre Atlantico.[/cryout-pullquote]L’Europa è pur sempre un mercato – produttivo e di consumo – che conta 250 milioni di persone e da circa un anno e mezzo sta trattando con gli Stati Uniti i contenuti del Ttip (Transatlantic Trade and Investmant Partnership, un enorme patto economico dai nebulosi contorni che investe lo scambio di merci e servizi fra i due: una cosa colossale dai risvolti ancora incalcolabili, basti dire che dentro c’è anche la finanza, la telecomunicazioni e l’energia. Naturalmente il nostro Governo si è già dichiarato entusiasta, mentre molti organismi di categoria e sindacati hanno dato vita ad una campagna “Stop Ttip Italia” paventando ripercussioni negative per l’economia del nostro Paese, supportati da studi e pareri di economisti di livello internazionale.
C’è voluta una certa pressione dell’opinione pubblica e una sentenza della Corte di Giustizia Europea (ottobre 2014) che richiamava ad una maggiore trasparenza, per saperne un po’ di più.
Il paradosso è che tutto ciò è nella piena consapevolezza di Draghi che – per adesso – non perde occasione per ricordarci che ogni stock finanziario dei singoli paesi UE non potrà mai essere fronteggiato – come in USA – mediante un Bilancio federale che non c’è. Ogni paese dovrà da solo badare a risolvere la sua crisi e mostrare la sostenibilità del proprio debito.
Oggi l’unico collante che sembra tenere ancora insieme questa Europa unita/disunita sembra essere una sorta di pangermanesimo, per il momento assai gradito oltre Atlantico. Se non si imboccherà una strada diversa, allora sarà opportuno rinegoziare tutti gli accordi europei in essere, dal primo all’ultimo e per primo proprio il Trattato di Lisbona che, per parte italiana, fu sottoscritto, nel 2007, da due noti esponenti politici – guarda caso – oggi in lizza per il posto libero al Quirinale.
Già, perché Napolitano è andato via prima di sciogliere le Camere, assicurandosi l’elezione del suo successore rimanesse competenza di questo Parlamento (non si sa mai, se fosse caduto il Governo …). E così un Parlamento eletto con una legge elettorale sulla quale si è abbattuto il giudizio di incostituzionalità della Corte Costituzionale, si accinge adesso ad eleggere un nuovo Presidente espressione di una geografia politica figlia del “Porcellum”, dove ogni patto e negoziato per l’elezione stessa assume il sapore di una beffa a danno dei cittadini.
“Ciò che non mi distrugge mi rende più forte”. Lo disse Nietzsche e noi ce lo auguriamo per la nostra economia e per il nostro sistema democratico.
[1] cfr. “La stabilità e la prosperità dell’Unione monetaria”, di Mario Draghi, in Il Sole 24Ore del 31 dicembre 2014; Handelsblatt: “Mario Draghi: ECB Policy Weak without Government Reforms”, by Handelsblatt Staff, January 16, 2015
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Il grande Dezzani ha già spiegato come i tedeschi abbiano mollato l’euro. E’ vero essere al solito al servizio di Britannia maggiore azionista Bce. Ma a tutto c’è un limite. E questa volta i Russi arriveranno, pacificamente, a Londra ormai sperdutasi nel caos interiore e nella nullità intellettuale della sua classe dirigente.